Il recente acquisto di Lionel Messi da parte del PSG, ciliegina conclusiva su una campagna acquisti faraonica dei francesi, ha riportato alla luce il discorso relativo alle spese eccessive e al mancato rispetto del fair play finanziario.
Una regola che i nuovi ricchi – dal PSG a certe proprietà di club inglesi – hanno aggirato e continuano ad aggirare, con l’UEFA che osserva da lontano e lascia fare, infischiandosene delle contraddizioni e di contratti da fantascienza e di acquisti dalle cifre iperboliche.
Potere del calcio business di oggi?
In realtà i soldi nel calcio sono sempre girati in maniera copiosa, destando scandali popolari dalla notte dei tempi: come dimenticare in Italia il passaggio di Viri Rosetta dalla Pro Vercelli alla Juventus – che suscitò scandalo e rivolte degli altri club – per 45mila lire o del violinista Raimundo Mumo Orsi, passato qualche anno dopo dall’Independiente di Avellaneda alla solita Juve per 100mila lire più Fiat 500 e villa in collina. In Inghilterra, patria di origine del football moderno, fece scalpore, prima ancora, l’acquisto del Manchester United del tuttofare gallese Billy Meredith, mentre in Spagna il portiere Ricardo Zamora passò al Real Madrid per 150mila pesetas, facendo esclamare all’inorridito Re Alfonso XIII: «Questo Zamora guadagnerà più di un ministro e di conseguenza il calcio diventerà uno sport per professionisti».
Non è solo diventato per professionisti. Oggi, a quasi cento anni di distanza, possiamo affermare con certezza che è diventato uno sport per multimiliardari elitari, alla faccia di chi parla ancora – chi lo fa, vive evidentemente in una realtà parallela – di “sport della gente”.
È sempre e tutto un discorso legato a doppio filo alla politica.
Il presidente del PSG, l’emiro del Qatar, Nasser Al-Khelaïfi, è stato uno dei più forti sostenitori del fronte del no alla Superlega, si è ingraziato in questo modo le simpatie del presidente UEFA Aleksander Čeferin a tal punto da guadagnarsi la carica di vicepresidente del massimo organismo calcistico europeo. Essendo pure ben visto dalla FIFA, ha favorito l’approdo del Mondiale in Qatar tra novembre e dicembre 2022. E guarda caso quest’estate nessuno osa dire “bah” al fatto che si lanci in acquisti sensazionali senza remore: tra costi zero (ma con ingaggi da nababbo, si parla di una cifra totale da 331 milioni di euro) e acquisti faraonici, il suo PSG – che dal suo approdo ha speso 1,4 miliardi di euro – pare una corazzata. Favorita numero uno indiscussa per la vittoria della Champions, tra Neymar e Mbappé, Donnarumma e Verratti, Wijnaldum e Hakimi, Sergio Ramos, Marquinhos e Kimpembe, Di María e l’ultimo arrivato Messi.
I nomi però non fanno mai una squadra, anche perché il manico – Pochettino – qualche dubbio lo lascia (anche se c’è sempre un certo Zinédine Zidane libero, nel caso).
Che vincano le squadre e non le figurine lo dimostrano anche i recenti Europei: la Francia super favorita è uscita con le rossa rotte, l’Italia senza grandi stelle (a parte forse proprio Donnarumma) ha vinto la competizione.
Lo ha dimostrato anche la Coppa América, e Messi dovrebbe saperlo bene. Lui è stato il trascinatore principe dell’Argentina, avendo messo lo zampino – tra gol, assist e azioni-gol avviate – a 10 delle 12 reti segnate dai suoi. Ma se Leo ha finalmente reso al massimo è merito anche dell’allenatore Scaloni, che ha creato un gruppo e un’identità definite, permettendo alla Pulce di esprimersi sereno e libero da condizionamenti. La riprova di quanto l’Argentina fosse gruppo, prima che individualità, è arrivata in finale. Partita dove Messi ha brillato poco, ma la squadra ha conquistato ugualmente il trofeo, superando il favorito Brasile e facendo leva su un invidiabile spirito unitario.
Che il giro PSG–City-altri club inglesi (a proposito, se la Superlega è saltata di sicuro non è per l’effetto della gente, ma perché la Premier League, oggi campionato numero uno al mondo per indotto economico e presa globale, si sarebbe trovata spalle al muro e dunque è presumibile pensare che abbia forzato la mano del governo inglese per far saltare il banco) non sia tutto rose e fiori è evidente. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, diceva Gesù, un detto vero più che mai soprattutto nel calcio odierno.
Che il calcio così non possa andare avanti e abbia bisogno di ripensarsi è evidente.
Sempre più club – quelli che non possono affidarsi ai soldi infiniti degli sceicchi – sono indebitati e non parliamo solo di piccole e medie realtà, ma anche di top team storici, vedi in Spagna Real Madrid e Barcellona, piuttosto che Juventus, Inter o Milan in Italia.
Ingaggi troppo alti, introiti inferiori alle spese, l’arrivo del COVID-19 che ha svuotato gli stadi e annullato gli incassi dei botteghini.
Qual è l’alternativa dunque per ripartire e provare a “risanare” il calcio?
Non di sicuro la Superlega.
Una competizione che al contrario sembra dare un’ulteriore spallata al movimento… in senso negativo. Della serie: se la mia azienda incassa meno di ciò che spende e accumula debiti, la soluzione è uno sponsor (la banca JP Morgan), che mi consenta di aumentare il portafogli a dismisura, azzerare i debiti e farmi ingaggiare nuovi giocatori a prezzi ancora maggiori. No, decisamente, non funziona così.
Senza contare – ed è l’aspetto sportivamente peggiore – che queste società indebitate vorrebbero annullare completamente il concetto del “rischio d’impresa”. Ossia: c’è il rischio che nonostante abbia più soldi degli altri, possa sbagliare stagione, possa finire alle spalle di società che hanno speso la metà, un terzo, un quinto di me… e allora creo una regola ad hoc che mi permetta ugualmente di partecipare al campionato dei ricchi, alla divisione della torta. Perché ho più storia? Perché ho vinto di più? Motivazioni labili e facilmente smontabili. Il vero motivo è che queste società hanno più debiti e quello è il solo modo che hanno per tentare di salvarsi in angolo.
Da quando il calcio è nato – Taverna dei Frammassoni, Londra, 1863 – nessuno ha mai messo in discussione il criterio meritocratico, il risultato sportivo. Posso avere più soldi, ma è sul campo che devo dimostrare di essere superiore al mio avversario. Se arrivo primo in classifica, salgo. Se arrivo ultimo, retrocedo. Se le regole dicono che le prime 2, 3 o 4 di un dato campionato giocheranno la Champions League, saranno le prime 2, 3 o 4 ad accedervi in base ai risultati.
La Juventus nell’ultima stagione è andata vicinissima a una clamorosa esclusione, se solo il Napoli avesse sconfitto in casa il Verona nell’ultima giornata. Non è accettabile che alcuni club, solo per pagare i propri debiti, per non ammettere di aver sbagliato scelte a livello economico e/o sportivo, decidano di crearsi una competizione elitaria e più importante di tutti, dove la loro partecipazione è garantita indipendentemente dal fatto che vincano o perdano nei rispettivi campionati nazionali, che arrivino primi, secondi o ultimi.
Dunque quale strada dovrebbe percorrere il calcio per uscire dall’impasse?
Fare uno o due passi indietro, non uno – a caso – in avanti.
Lanciamo qualche idea. Salary cap. Ridistribuzione delle risorse. Tetto al numero di giocatori in rosa. Tetto al numero di stranieri. Valorizzazione dei vivai. Investimento obbligato e obbligatorio sulle strutture. (Sarebbe bello anche il ritorno alla vecchia formula delle coppe, anche per tornare a dare maggiore importanza ai campionati nazionali… ma ci rendiamo conto che è un discorso fuori dal tempo, oramai).
Una cura dimagrante che avrebbe effetti positivi sul medio-lungo periodo e renderebbe il calcio meno antipatico non solo a tanti appassionati che si stanno sempre più stancando della piega che sta prendendo il football-business di oggi, ma anche agli aficionados di altre discipline.
Servirebbe meno capitalismo finanziario anglo-americano, modello di società che ha preso piede in modo preponderante nel 21° secolo affiancato agli effetti devastanti della legge Bosman. E più capitalismo renano, sociale, sul modello tedesco (non a caso, delle grandi, il Bayern Monaco è la sola che spende solo ciò che davvero ha; investe su vivaio e strutture; non compra nomi altisonanti se il loro stipendio sfora il monte ingaggi; fa partecipare i tifosi negli utili del club esattamente come nel modello renano gli operai a fine anno partecipano degli utili dell’azienda. Eccetera).
Insomma: più Bayern Monaco se vogliamo salvare il calcio europeo (e più presidenti come Tebas, che ha messo giustamente un tetto alle spese folli di Real e Barcellona, per cercare di far dare un futuro economicamente più sostenibile e morigerato alla Liga).
IL CAPITALISMO RENANO |
Espressione riferita ad un tipo di organizzazione economica ed istituzionale, nata in Germania e successivamente diffusasi in Giappone. Nel modello in esame la proprietà della grande impresa è condivisa da azionisti formati da: • grandi banche; • società di assicurazione; • fondazioni legate alle imprese; • fondi collegati ai dipendenti o ai sindacati. Al contrario di quanto accade nel capitalismo anglosassone, in quello renano gli azionisti partecipano attivamente alla gestione quotidiana dell’impresa affiancandosi ai manager e ai rappresentanti dei dipendenti dell’azienda. Esiste, inoltre, un rapporto costante fra l’impresa e le istituzioni pubbliche, il che contribuisce a rendere stabile il complesso equilibrio fra le diverse forze che fanno capo all’impresa. Il fitto intreccio di rapporti, fra i diversi attori sociali, afferma e contemporaneamente rafforza l’idea che l’impresa non è un bene qualunque e non può essere, quindi, acquistata o venduta come un qualsiasi altro bene. |
PS: ah, noi non critichiamo Messi per aver firmato per il PSG. È un professionista e ancora oggi, probabilmente, il miglior calciatore al mondo. Giustamente è ambizioso e opera le scelte migliori per la sua carriera, pesando ciò che ritiene più giusto per sé.
Purtroppo – e torniamo agli effetti devastanti del capitalismo finanziario e della legge Bosman – è l’ennesima dimostrazione che viviamo in un calcio dove i grandi fuoriclasse finiscono tutti in pochi elitari top team, che hanno un potere di spesa enorme: il 5 per cento delle società ha in mano il 95 per cento delle risorse; il 95 per cento delle società ha in mano il 5 per cento delle risorse.
Messi è figlio del suo tempo. Se Maradona, Zico, Riva, Moore, Overath (cinque fuoriclasse che hanno militato, tanto o poco, in società non di primissimo piano; ma di esempi se ne potrebbero fare a tonnellate) giocassero oggi, non li vedremmo mai al Napoli, all’Udinese, al Cagliari, al West Ham o al Colonia, ma al PSG, al City, alla Juventus, al Manchester United o al Bayern.
Quanta nostalgia, da questo punto di vista, per il calcio più sostenibile ed equilibrato del 20° secolo…