Mi sono imbattuto per la prima volta in Arjen Robben nel giugno 2006, durante i mondiali di Germania. Ricordo che ero al mare sulla riviera romagnola e le mie giornate di ragazzino dodicenne erano scandite dal calcio: sulla spiaggia, sui campetti, ovunque. Anche le mie letture erano fortemente intrise di pallone: Gazzetta dello Sport, Guerin Sportivo e altre riviste sportive, con le quali mi facevo una cultura calcistica. Internet c’era ma non era ben fornito come ai giorni nostri, YouTube era ancora una realtà embrionale.
In un giornalino calcistico, che comprai con un amico che era con me, era inserito un poster, della grandezza di due pagine, di un giocatore alto, con pochi capelli biondo scuro già diradati, in completo blu e con i calzettoni bianchi sporchi di erba, sudore e battaglie.
“Questo è forte forte”, disse il mio amico.
Robben nel 2006 era sulla scena internazionale già da un po’: stava disputando un mondiale con l’Olanda (uscirà agli ottavi per mano del Portogallo con un gol di Maniche, ottimo centrocampista al Porto, un po’ meno all’Inter), aveva già avuto un Europeo importante alle spalle nel 2004 dove aveva già offerto prestazioni importanti – contro la Svezia di Ibrahimovic quando fece una grandissima partita e fu il pericolo numero uno per gli scandinavi; contro la Repubblica Ceca nei gironi, nonostante la clamorosa sconfitta – e soprattutto era già da un paio d’anni un importante giocatore del Chelsea.
Io non l’avevo ancora notato, o meglio, non ero ancora stato folgorato, nonostante fosse un giocatore che – da ragazzino appassionato – avrei dovuto già conoscere.
Bastò un comunissimo poster per memorizzarlo e iniziare a seguirlo con attenzione, e così feci: lo vidi anni dopo lasciare il Chelsea per il Real Madrid, dove andò a corrente alterna, in una fase di transizione – almeno per quanto riguarda la dimensione europea – del Real Madrid.
Vidi lui e il suo compagno oranje Wesley Sneijder essere ceduti con sufficienza rispettivamente a Bayern Monaco e Inter nell’estate 2009. Ironia della sorte, i due olandesi scartati divennero i principali protagonisti della Champions League, trascinando le rispettive squadre alla finale che si giocò il 22 maggio 2010 proprio nella tana dei Blancos. Lo vidi perdere finali e finire ingenerosamente sul banco degli imputati – e pazienza se tra i trascinatori della squadra all’ultimo atto il suo nome era in cima alla lista;
lo vidi redimersi in una finale di Champions tutta tedesca, segnando il gol vittoria dopo averne sbagliati altri due, esorcizzando i suoi demoni che lo volevano dipingere come un “grande mezzo giocatore”, uno bravo che però nei momenti decisivi lasciava a piedi la squadra, sciogliendosi come il cioccolato – non a caso uno dei suoi soprannomi appiccicatogli durante l’avventura londinese fu chocolate, per la poca propensione a rimanere freddo e solido nei momenti cruciali.
E soprattutto lo vidi ripetere una sequenza infinite volte, in un eterno loop: corsa sulla fascia destra, dribbling a rientrare ad eludere i difensori, sinistro sul primo o sul secondo palo – di potenza, a giro, a mezz’altezza, rasoterra, in qualunque modo.
Nonostante la “monotematicità” della giocata, ripetuta per oltre una decina d’anni, nessuno è mai riuscito ad arginarlo o a prendere le adeguate contromisure: la sua forza fisica e la sua accelerazione in campo aperto lo facevano assomigliare una locomotiva, che ad un certo punto come d’incanto si trasformava in un aquilone che dipingeva traiettorie magiche.
Meno fantasioso e meno vario del suo inseparabile compagno Franck Ribery – con cui formava quell’irresistibile duo chiamato in gergo Robbery, un nome che sembra uscito da un buddy cop movie americano degli anni 80 – ma a mio avviso più letale, decisivo e travolgente, Robben – insieme a Neymar e Iniesta – ha rappresentato nello scorso decennio quel gruppo ristretto di fuoriclasse un gradino sotto il duopolio Messi-Cristiano Ronaldo, al vertice della scala piramidale delle gerarchie del calcio contemporaneo, per la sua capacità di essere decisivo in ogni contesto, per la continuità assoluta di rendimento e di prestazione, anche quando gli anni aumentavano e gli acciacchi fisici non gli concedevano un’autonomia di novanta minuti.
La sua storia parte da lontano: dopo essere cresciuto calcisticamente nel Groningen, la sua prima vetrina importante è il PSV Eindhoven, dove approda nell’estate 2002. Con i Boeren (Contadini) è subito amore: vince da protagonista al primo anno l’Eredivisie con 33 presenze, 12 reti e 7 assist ed affinando un’intesa speciale con il serbo Mateja Kezman, che vivrà accanto ad Arjen le più prolifiche stagioni della carriera, prima di approdare entrambi nell’estate 2004 alla corte di Abramovich. I due insieme sono devastanti, la loro affinità è quasi supereroica, tanto da far denominare la coppia “Batman e Robben”.
Il patron russo si innamora di entrambi e, come detto, li porta a Londra nell’estate 2004, sperando di replicare i fasti olandesi, ma purtroppo non fu così: i ripetuti infortuni frenarono il rendimento di Robben, che giocò a singhiozzo, riuscendo tuttavia a sprigionare i suoi lampi. Il primo, in una gara casalinga contro l’Everton inchiodata sullo 0-0 nonostante l’assedio Blues, fu indimenticabile: Gudjohnsen fa da boa e lo lancia a campo aperto sulla fascia destra, Robben addomestica il pallone, entra in area, scavalca il portiere con un pallonetto sotto l’incrocio dei pali e corre sotto la curva di Stamford Bridge a festeggiare a braccia aperte.
In tre anni, sotto la guida di Josè Mourinho, vincerà due Premier League, una FA CUP e due Coppe di Lega, ma il suo rendimento sarà sempre agrodolce: a momenti sontuosi in cui sembrava andare ad una velocità diversa dagli altri, dando una dimostrazione di velocità e forza che abbinate costituivano un mix letale, facevano da contraltare stop per problemi fisici e momenti di appannamento. Anche in Champions League comincia a sfornare prestazioni importanti, una tra tutte l’ottavo di finale contro il Porto del 2007, risolto grazie ad un suo gol.
Nell’estate del 2007 viene chiamato al Real Madrid, pronto a spiccare il volo definitivo e a consacrarsi definitivamente tra i grandissimi: al primo anno vince il campionato, fornendo buone prestazioni, ma già nell’anno successivo emersero totalmente i problemi del Real Madrid. La squadra era disfunzionale, era un insieme di figurine e grandi giocatori privi di una vera amalgama (Higuain/Robben, Van Nistelrooy, Sneijder, Raul, Van Der Vaart molto spesso insieme) e non è un caso che, davanti ad una squadra con ingranaggi ed equilibri perfetti come fu il primo Barcellona di Guardiola – dove le individualità erano fuse e amalgamate in una perfetta orchestra, i Blancos furono letteralmente travolti per 2-6, in uno dei Clasicos più famosi e celebri degli ultimi quindici anni.
La campagna faraonica che nell’estate 2009 porta alla corte delle Merengues giocatori del calibro Cristiano Ronaldo, Kakà, Benzema, Xabi Alonso ha come conseguenze l’addio di Robben, che finisce a Monaco di Baviera.
Ci sono momenti cruciali, che cambiano il destino di ognuno di noi. Sliding doors che svoltano il destino e che imprimono agli eventi una direzione decisiva.
L’arrivo di Arjen Robben al Bayern Monaco è uno di questi, perché l’olandese sboccia definitivamente e compie quell’upgrade fino a quel momento solo sfiorato. Con la maglia numero 10, regala discese in serie sulla fascia destra, aumentando anche il numero dei gol: se negli anni di Londra e Madrid non è mai salito sopra quota 7 in campionato, al primo anno di Bundesliga ne segna ben 16, battendo il suo precedente record di 12 realizzazioni risalente ai tempi del PSV. Più reti, dunque, ma soprattutto grandi prestazioni da trascinatore, che gli valgono il titolo di “migliore giocatore della Bundesliga”.
E’ tuttavia in Champions League che lascia il segno: dopo una fase a gironi a mezzo servizio, tra alcune partite saltate per infortunio ed altre giocate a minutaggio ridotto, l’olandese si scatena nelle gare ad eliminazione diretta: durante l’andata degli ottavi di finale a Monaco contro la Fiorentina di Jovetic e Gilardino segna il gol del vantaggio su rigore (la partita finirà 2-1 per i padroni di casa, ma i Viola recrimineranno l’operato dell’arbitro Ovrebo). A Firenze i ragazzi di Prandelli giocano la partita della vita e si portano sul 3-1, ma Arjen spegne i sogni della città gigliata: riceve palla sulla fascia destra, salta due uomini e fa partire un tracciante meraviglioso che si infila sotto l’incrocio dei pali. E’ un gol “alla Robben”, il suo timbro, nel momento cruciale. Il Bayern, che pure annovera giocatori come Thomas Muller, Bastian Schweinsteiger, Franck Ribery, si aggrappa all’olandese e vola ai quarti contro il Manchester United.
Salta l’andata in Germania, che Ribery e Olic indirizzano sui binari giusti per 2-1, ma è presente al ritorno all’Old Trafford. In una sorta di deejavu, i bavaresi rivivono gli incubi fiorentini e nuovamente Arjen Robben tira fuori i suoi dal pantano dell’eliminazione, stavolta con un sensazionale sinistro al volo dal limite dell’area dopo un calcio d’angolo di Ribery. Il gol più bello della carriera, probabilmente. Sicuramente il gol dell’anno, per coefficiente di difficoltà e importanza del momento. In semifinale il Bayern risolve sbrigativamente la pratica Lione e Rooben timbra ancora il cartellino.
La finale del Santiago Bernabeu contro l’Inter di Josè Mourinho è amara: i nerazzurri, in uno stato di pieno benessere psicofisico derivante dai due trofei nazionali appena conquistati e soprattutto dall’eroica impresa di Barcellona, dominano con merito, trascinati da una micidiale doppietta di Diego Milito. Arjen Robben è comunque il più pericoloso dei suoi e disputa una buona finale: sulla fascia destra Christian Chivu soffre i suoi cambi di direzione e il suo passo e fatica non poco a contenerlo. Termina la stagione con una medaglia d’argento, ma con la consapevolezza di aver disputato una stagione da fuoriclasse e da trascinatore.
Dei mondiali sudafricani, invece, è passata alla storia un’immagine, un momento che si è cristallizzato nel tempo e che incombe sulla testa di Robben come la spada di Damocle: quei pochi secondi in cui l’olandese si è trovato da solo davanti a Iker Casillas, con la palla-gol che poteva valere un mondiale e che è sfuggita persino a mostri sacri come Johann Cruijff e Marco Van Basten. Robben però non angola a sufficienza il tiro, la palla sbatte sul piede di Casillas che sembra un muro di gomma. Andres Iniesta invece concretizza e sull’Olanda e Robben cala il buio della sconfitta.
È brutto perdere le finali, ma è ancora più ingiusto quando a fallire un’occasione d’oro è il giocatore più rappresentativo e più decisivo della squadra: i lampi di Robben contro Slovacchia e Uruguay, nonché la grande prestazione con il Brasile dove mette il piede in entrambi i gol, passano ingenerosamente in secondo piano.
La via crucis di Robben prosegue con altre due cadute con il Bayern Monaco in un climax drammatico: la prima “stazione” è l’11 aprile 2012 a Dortmund, in casa del Borussia alla trentesima giornata. 3 punti separavano i gialloneri dai bavaresi, nella corsa scudetto, con 5 partite al termine. La posta il palio era pesantissima, il Bayern cercava l’aggancio, il Borussia di Jurgen Klopp l’allungo. Lo 0-0 viene sbloccato da un tacco volante di Robert Lewandowski al 75’, ma il Bayern ha la palla del pareggio, per ben due volte, sul sinistro – manco a dirlo – di Arjen Robben, ma l’olandese prima calcia un rigore debolissimo, bloccato senza problemi da Weidenfeller, venendo umiliato da un isterico Subotic che in diretta mondiale gli urla in faccia un’esultanza rabbiosa, e poi – tramortito dalle emozioni, manda alto un tap in a porta vuota da pochi metri.
L’abisso però viene toccato un mese dopo, con una finale di Champions giocata in casa da squadra favorita. Il Bayern domina, ma non riesce a concretizzare le molte occasioni avute non andando mai sul 2-0, venendo così riacciuffato in extremis da un eroico Didier Drogba. I supplementari offrono a Robben la palla della gloria e la possibilità di chiudere quello squarcio nel suo inconscio apertosi nella notte di Johannesburg due anni fa, ma il sinistro dal dischetto è la fotocopia di quello con Weidenfeller in campionato: Cech lo blocca, e il drammatico esito finale lo conoscete tutti.
L’olandese è distrutto, l’etichetta di “grande mezzo giocatore”, del rovescio della medaglia del clutch player – ossia del giocatore, secondo il gergo NBA, che nei momenti di tensione risponde sempre presente – sembra definitiva.
È stato un rigore orribile. Volevo calciare di potenza e in alto, ma la palla non si è alzata a sufficiente. Non so descrivere come mi sia sentito, ma è stata una nottata terribile. Il fatto che Drogba e Platini mi abbiano consolato, ma non vale nulla. Volevo la coppa e non l’ho vinta.
Dio solo sa cosa aveva dentro Robben, quella sera del 25 maggio 2013 a Wembley, nella sua ultima chiamata per fare la storia. L’avversario era ancora il Borussia Dortmund di Klopp, in porta c’era ancora Weidenfeller. Arjen si dà da fare, contro gli avversari e soprattutto contro se stesso e i suoi demoni. Fa l’assist a Mandzukic per l’1-0, ma manca un paio di occasioni da buona posizione. Al gol del pari di Gundogan, è sembrato chiaro a tutti che dal destino non si può scappare.
Ineluttabilità.
L’amico Franck Ribery, il compagno preferito con cui replicare le gioie giovanili di un’intesa magica da Partners in crime, gli offre però un cioccolatino, a pochi giri di lancette dal termine. Il sinistro strozzato stavolta supera Weidenfeller e si insacca lento in porta. Robben corre e allarga le braccia, con l’espressione incredula di chi è tornato sano e salvo dall’inferno.
La Coppa va al Bayern Monaco e soprattutto ad Arjen Robben, che da mr. Chocolate diventa mister Wembley.
Si potrebbe raccontare ancora molto su di lui.
Ci sarebbe molto da dire sull’incetta di trofei in Germania con il Bayern, da uomo-chiave, anche se spesso a mezzo servizio. Si potrebbe raccontare di un suo fantastico mondiale in Brasile, l’anno dopo, dove trascina l’Olanda al terzo posto a suon di reti e di prestazioni dominanti, prima tra tutte l’indimenticabile Olanda-Spagna 5-1 del girone, dove Casillas non fa più paura e Robben domina con una doppietta ed una gara da 9 in pagella.
Si potrebbe raccontare di un addio al Bayern dopo dieci anni con uno stadio gremito che gli dedica applausi, cori e lacrime, chiudendo una delle ere più gloriose della storia del club bavarese.
Si potrebbe parlare di un Pallone d’Oro mancato, che probabilmente avrebbe dovuto essere vinto dalla coppia Robbery nel 2013 per prestazioni e vittorie e che invece è stato cannibalizzato da Cristiano Ronaldo.
Si potrebbe parlare di un suo romantico ritorno dove tutto cominciò, ossia al Groningen, nella serie B olandese, nell’estate del 2020, a 36 anni.
A noi interessa invece rimarcare come la storia di Arjen Robben sia degna di una rappresentazione teatrale, di avventure e drammi da raccontare. Ascese, cadute vertiginose senza fine e resurrezioni.
E il privilegio di sapere emergere in un’epoca – checché ne dicano i critici nostalgici, che hanno sempre un occhio di indulgenza verso il passato e allo stesso tempo un occhio di diffidenza verso l’attualità – dove oltre a due giocatori epocali ci sono stati altri che in quanto a prestazioni, seppure in un lasso di tempo molto ridotto rispetto ai due “alieni”, hanno dimostrato di non sfigurare al loro cospetto e di essere persino più bravi in certi frangenti.