Gigi Radice portato in trionfo dai giocatori dopo la vittoria dello scudetto (www.corriere.it)
“Ti sei accorto di cosa è successo oggi nella partitella?”.
“No, non mi è sembrato di vedere nulla di strano”. “Invece sì, abbiamo provato il fuorigioco”.
Annunciava quella che sarebbe stata una vera e propria rivoluzione, il dialogo durante la passeggiata serale nei viali attorno all’albergo di Santa Vittoria d’Alba, sede del ritiro precampionato, tra l’esperto difensore granata Nello Santin e il giovane cronista della Gazzetta dello Sport Beppe Conti, oggi tra i massimi esperti mondiali di ciclismo. Sulle colline delle Langhe, nella calda estate del 1975, si stava forgiando l’innovativo e spettacolare Torino che il 16 maggio dell’anno successivo, al termine di un campionato incredibile, in cui rimontò cinque punti in tre partite alla Juventus, tornò a cucire lo scudetto sulle maglie granata 27 primavere dopo la sciagura di Superga.
La rinascita dopo una crisi
Come spesso successo nella loro storia, le gioie dei granata sono nate dalle sofferenze, e anche la vicenda dello scudetto del 1976 non ha fatto eccezione. Il 20 maggio 1975, dopo giorni di contestazioni personali da parte dei tifosi per il deludente campionato chiuso al sesto posto, il presidente Orfeo Pianelli, al timone dal febbraio 1963, rassegnava le dimissioni, seguito a ruota dal tecnico Edmondo Fabbri nonostante quest’ultimo avesse già rinnovato il contratto per la stagione successiva. Fermo il consiglio d’amministrazione del club nel respingere le dimissioni e a fine mese, constatata la mancanza di offerte, Pianelli tornava in sella per dar vita assieme al direttore sportivo Giuseppe Bonetto alla sua “creatura perfetta”,
Un mercato strategico
Prima mossa fondamentale fu affidare la panchina a Gigi Radice, tecnico brianzolo con ottimi trascorsi da calciatore nelle file del Milan che si era messo in luce alla guida di Cesena, Fiorentina e Cagliari. Intransigente e visionario, il “tedesco”, come veniva soprannominato, faceva praticare un calcio moderno, sulla falsariga del modello olandese che imperversava a metà degli anni Settanta. Dopodiché Bonetto strappò al Bologna il giovane regista Pecci per 750 milioni e l’eclettico difensore Caporale per un centinaio più Cereser. Radice richiese espressamente dal Monza il mediano Patrizio Sala (“Il ragazzo ha gamba” ero solito sottolineare il mister), mentre dalla Ternana arrivò l’attaccante di rincalzo Garritano e dal Vicenza il difensore Fabrizio Gorin in comproprietà per 200 milioni più la metà di Callioni. A completare la rivoluzione la cessione dei veterani Agroppi e Mascetti e l’addio al calcio di capitan Ferrini, che passò immediatamente nello staff tecnico di Radice.
La chiave tattica
Nelle prime uscite stagionali, tra cui lo sfortunato girone preliminare di Coppa Italia e l’esordio in campionato con sconfitta a Bologna, il Toro, schierato per la prima volta nella sua storia in completa divisa granata, faceva leva davanti al Giaguaro Castellini su Santin libero, lo stopper Mozzini, Lombardo o Gorin marcatori e lo sgusciante Faina Salvadori spostato dalla mediana alla corsia esterna di sinistra. I risultati poco soddisfacenti e lo scarso rendimento di Lombardo e Gorin portarono Radice all’intuizione di dirottare Santin in marcatura inserendo Caporale nel ruolo di libero, con compiti di spazzino dell’area di rigore vecchia maniera uniti a quelli di impostazione a supporto del settore nevralgico. Qui le chiavi del gioco erano affidate alla regia di Pecci, affiancato dalla corsa di Patrizio Sala (utile anche a coprire le variazioni sul tema del Poeta del Gol, Claudio Sala) e dall’eleganza con efficacia realizzativa dell’interno Zaccarelli. Ma è nel tridente offensivo che il capolavoro tattico granata si completò. Abbandonata la “forbice” di Edmondo Fabbri, che prevedeva Claudio Sala nell’originaria posizione di trequartista centrale (“falso nove” si direbbe oggi) alle spalle delle punte esterne Graziani e Pulici, Radice spostò il capitano sulla fascia destra (con frequenti e imprevedibili cambi di fronte), libero di dare sfogo a tutto il suo estro sfornando assist al bacio per i Gemelli del Gol.
Spettacolo e avversari “asfissiati”
Amante del basket e stregato dall'”arancia meccanica” olandese, il nuovo allenatore granata cercò di mutuarne schemi e attitudine imponendo pressing a tutto campo, squadra corta, difesa alta, raddoppi di marcature, tattica del fuorigioco e continui cambi di posizioni con inserimenti dalle retrovie per sorprendere gli avversari. Il pressing iniziava già dagli attaccanti (maestro in questo Graziani), che cercavano in maniera ossessiva il giocatore tecnicamente più debole dei rivali per indurlo all’errore in fase di impostazione, recuperare palla e ribaltare il fronte della manovra. La tattica del fuorigioco consentiva ai granata di rimanere corti disorientando gli avversari e potendo contare subito sulla superiorità numerica una volta tornati in possesso della sfera. Alle geometrie di Pecci e Zaccarelli si associavano gli inserimenti offensivi sulla sinistra di Salvadori e sulla destra di Patrizio Sala, che sfruttava gli spazi lasciati liberi da Claudio Sala nel suo frequente svariare dalla posizione di partenza. Dribbling e cross del Poeta del Gol furono l’elemento che fece pendere definitivamente l’ago della bilancia in favore del Toro. Ambidestro, il tornante granata era abile a saltare l’uomo e a resistere anche al ritorno del libero, sguarnendo le difese avversarie e creando spazi in cui andavano a nozze la dirompente potenza di Pulici e il tempismo di Graziani, alla fine della stagione rispettivamente capocannoniere con 21 reti e vice con 15 gol messi a segno. Il Toro diventava così un’armonica e spettacolare macchina da calcio votata all’offensiva, che andava all’assalto con l’obiettivo di segnare un gol in più degli avversari, anche a costo di scoprirsi le spalle.
Cavalcata e scaramanzie verso lo scudetto
L’avvio del campionato 1975-’76 vive sul rinnovato duello tra la Juventus e il Napoli di “mister due miliardi” Beppe Savoldi, che si alternano in vetta. Il Toro comincia a carburare, regola i partenopei nello scontro diretto (3-1), fa un sol boccone dei bianconeri nel derby d’andata (Graziani e Pulici dal dischetto come al solito i mattatori) e da metà dicembre si pone come inseguitore principe della Vecchia Signora. Fondamentali a tal proposito le vittorie esterne di Firenze e a San Siro col Milan. L’inverno porta qualche frenata, tra cui il pareggio di Cesena e le sconfitte di Perugia (due squadre che come vedremo avranno un ruolo fondamentale in questo romanzo granata) e sul campo dell’Inter, che consente alla Juve di prendere il largo portando a 5 punti (ricordiamo che al contrario di oggi la vittoria ne valeva 2) il suo vantaggio. Ma la primavera stava per sbocciare.
La compattezza della Juventus, minata da dissidi nello spogliatoio acuiti dai contrasti fra Anastasi e il tecnico Parola che portarono all’esclusione del centravanti, comincia a dare segni di cedimento. Il 21 marzo i bianconeri passano presto in vantaggio a Cesena con Damiani, ma una doppietta di Bertarelli nella ripresa e le parate di Boranga li costringono alla resa. L’acuto di Graziani a spese della Roma permette al Toro di ridurre il divario a tre lunghezze. La domenica successiva va in scena il derby. La gara è a senso unico, con le autoreti di Cuccureddu su colpo di testa in mischia di Graziani e di Damiani deviando un tiro dal limite di Patrizio Sala che indirizzano la partita già nella prima frazione. Al rientro negli spogliatoi Castellini viene centrato da un petardo lanciato dalla curva Filadelfia (covo del tifo juventino) e dopo l’intervallo deve lasciare il posto a Cazzaniga. Il colpo di testa di Bettega a metà ripresa servirà solo ad accorciare le distanze, mentre il giudice sportivo in settimana assegnerà lo 0-2 a tavolino ai granata.
Con le due paladine del calcio sotto la Mole staccate di un solo punto, il 4 aprile 1976 il alza il sipario su un confronto incrociato da cuori forti con le milanesi. I granata al Comunale sbloccano attorno alla mezz’ora il confronto con i rossoneri (Graziani a segno), mentre a San Siro una Juve rimaneggiata, timorosa e oltremodo difensivista fa fronte in qualche modo alle iniziative nerazzurre. All’80’ la svolta della stagione: Garritano, entrato a sostituire Pulici, raddoppia per il Toro e in contemporanea la sassata di Bertini su punizione affonda i bianconeri. Incredulità seguita a delirio in curva Maratona, con la rete della bandiera milanista di Calloni su rigore che passa quasi inosservata. Cinque punti recuperati in tre partite e sorpasso in vetta degli uomini di Radice.
Il mese successivo si trasformava per i granata e i loro tifosi in una girandola di emozioni da far attorcigliare lo stomaco, tra la voglia e la gioia di spingere ancora sull’acceleratore e la preoccupazione di conservare il primato col timore di poter scivolare in vista del traguardo. Il gruppo si compattava però sempre di più anche grazie alle goliardiche cene post partita cui erano invitate anche mogli e fidanzate, mentre Radice confermava ancora una volta la propria modernità portando all’arrivo dei primi caldi la squadra in ritiro montano a Bardonecchia per ossigenarsi già la domenica sera, con seguito di consorti rigorosamente in un altro albergo (per il mister i giocatori dovevano “chiudere i rubinetti” nei momenti cruciali della stagione), tornando a Torino solo il giovedì pomeriggio per la partitella infrasettimanale contro la formazione Primavera.
L’ambiente granata si affidava anche alla scaramanzia, dal completo gessato di lana indossato dal presidente Pianelli ad ogni partita fino al trionfo, passando per la puntuale visita ogni sabato di un anziano tifoso ribattezzato Ramsey, che saliva al ritiro collinare di Villa Sassi consegnando a Radice la formazione che secondo lui avrebbe dovuto schierare l’indomani, fino all’apparire sul balcone della sua casa di via Filadelfia di ragazza che salutava il pullman dei granata nel suo tragitto verso lo stadio. Conquistata la vittoria dopo la prima “apparizione”, la ragazza divenne un portafortuna e la domenica che i giocatori non la videro affacciarsi fecero fermare il torpedone e suonare il clacson dall’autista per richiamarla. La giovane tifosa corse a precipitarsi fuori esclamando: “Scusate, stavo mangiando la bagna caoda!”. Da quel giorno il tipico piatto piemontese divenne l’appellativo della beniamina che accompagnò i granata fino allo scudetto.
Il 16 maggio 1976
Pur con qualche brivido, il Toro riuscì a presentarsi all’ultima giornata, il programma il 16 maggio 1976, con un punto di vantaggio sulla Juve. Una splendida giornata di sole fece da cornice ai novanta minuti più lunghi e difficili della stagione. La voglia di fare festa, con uno stadio gremito che ribolliva di colori e tifo granata, e di stabilire il record di 15 vittorie su altrettante partite disputate in casa, si scontrava con la tenacia di un Cesena intenzionato a non mollare un centimetro in difesa chiudendo ogni varco.
Il Torino, fino a quel momento sciolto e brillante, si ritrovò col cuore in gola paralizzato dalla tensione e incapace di sviluppare le consuete trame di gioco. Sugli spalti gli incitamenti sempre più rochi dei tifosi si alternavano a silenzi surreali per ascoltare dalle radioline le notizie provenienti da Perugia, dove era impegnata la Juventus. Risultato ad occhiali su entrambi i campi all’intervallo, poi, al 10′ della ripresa, il boato gol del vantaggio umbro siglato dal compianto Renato Curi.
Una scarica di adrenalina scosse i granata, che si scrollarono di dosso le tensioni e si riversarono in avanti. Alla mezz’ora Graziani raccoglieva sulla sinistra un lancio di Patrizio Sala e centrava teso per Puliciclone, che con un tuffo di testa da kamikaze, incurante dell’intervento del futuro compagno di squadra Danova, trafiggeva Boranga. Il Toro era però destinato a soffrire fino alla fine e dieci minuti più tardi un innocuo traversone di Frustalupi veniva appoggiato all’indietro da Mozzini che beffava Castellini fuori dai pali per la più classica delle autoreti.
Lo scorrere del cronometro nell’ultimo quarto di gara sembrava eterno ai protagonisti in campo e ai tifosi sulle gradinate, ma a Perugia la Juve non aveva più la forza di reagire. Le due squadre decidevano così di non rischiare e al triplice fischio di Casarin la tensione e l’esultanza si trasformavano in lacrime di gioia per un trionfo atteso da 27 anni e dedicato agli Immortali di Superga. Unico rammaricato il perfezionista Gigi Radice, che anche al microfono di Paolo Frajese della Domenica Sportiva non riusciva a darsi pace per la vittoria mancata che aveva rovinato la stagione perfetta. E il lunedì sera la fiumana del popolo granata salì a piedi in pellegrinaggio a Superga per “consegnare” lo scudetto a capitan Valentino Mazzola e compagni.