Luis Suárez Miramontes, per tutti semplicemente Luisito, rivive nella bella biografia, corredata da una ricca e suggestiva galleria fotografica, “Luis Suárez l’Architetto” di Marco Pedrazzini.
Il galiziano di La Coruña muove i suoi primi passi nella Perseveranza, squadra del Collegio salesiano della parrocchia intitolata a San Tommaso, guarda caso il patrono degli architetti.
Ben presto mostra tutte le sue qualità. Il debutto con la maglia del Deportivo La Coruña mette i brividi: l’avversario è nientemeno che il Barcellona. Nonostante la disfatta – 6 a 1 per gli azulgrana – la prestazione di Suárez è da applausi.

È proprio il Barcellona a bruciare la concorrenza degli altri grandi club. Luis a 18 anni vesta la camiseta azulgrana. La leggenda del club, Josep Samitier, lo accoglie con queste parole: “Questo moccioso con la sua classe farà dimenticare i nomi di Kubala, César e del sottoscritto”. Suárez cresce alla scuola di grandi maestri e, come riconosce, deve a Kubala i primi insegnamenti preziosi: “il modo di difendere la palla, il ‘taglio’ per servire un compagno in diagonale, i lanci lunghi”.
E si sa, spesso gli allievi superano i maestri. Così, quando a guidare il Barcellona arriva Herrera – quello che una volta all’Inter diverrà il Mago – le gerarchie si invertono e Suárez inizia a farsi preferire a Kubala. Herrera ritiene Luisito pronto sotto tutti i punti di vista: “atleta dalla vita esemplare, disciplinato, eccezionale organizzatore di gioco. Lo considero il legittimo erede di Alfredo Di Stefano”.

Fu proprio l’immenso Don Alfredo a soprannominare Luisito ‘El Arquitecto’, l’Architetto, “per la sua capacità di capire il progetto di svolgimento di una partita e di costruirla, fino al risultato, con il gioco”.
Si impone però alla critica e vince il pallone d’oro del 1960. Quindi accetta il trasferimento a Milano, sponda nerazzurra. Sulla decisione influì molto un aspetto – precisa Luisito – : ”Sarei tornato da Herrera, il mio maestro, ma se non ci fosse stato il Mago non avrei accettato di venire in Italia”.
E proprio all’Inter, sotto la guida di Herrera, avviene la sua trasformazione. Da rifinitore diviene regista, si fa direttore d’orchestra e detta i tempi. I primi due anni sono di rodaggio, poi con lui centro ed epicentro della squadra, l’Inter diventa Grande.
Tra il ’62 e il ’66 vince 3 scudetti 2 coppe dei Campioni e 2 coppe Intercontinentali. Nel ’64 con la Roja, la nazionale di Spagna, si laurea campione d’Europa. È bicampione europeo di club e di nazionale nella stessa stagione, un record.
Herrera stravede per lui: “Uno dei migliori giocatori al mondo, vero motore della nostra squadra. Dà il ritmo di gioco e la profondità con i suoi passaggi impeccabili da 30 e 40 metri”.
Dopo 9 stagioni e tanti trionfi si chiude l’avventura della Grande Inter. C’è voglia di rinnovamento e Suárez, pur controvoglia, viene ceduto alla Sampdoria dove conclude la sua straordinaria carriera. Passa quindi a dirigere, questa volta però dalla panchina. Saranno più dolori che gioie, l’esperienza da allenatore è tuttavia impreziosita dal titolo di campione d’Europa vinto con i giovani dell’under 21 di Spagna.
L’Inter rimarrà sempre il suo grande amore. Verrà chiamato a guidarla ben quattro volte in situazioni di transizione ed emergenza dimostrando sempre dedizione e fedeltà ai colori nerazzurri.
Di lui rimane l’insegnamento legato alla sua magistrale interpretazione del ruolo di regista: “il centrocampista – dice Luisito – deve essere il padrone del campo. È lui che imposta, che detta, che sollecita, che inventa, che conclude”. Dal progetto alla sua realizzazione, Suárez fu un vero Architetto della pelota.
di Alessandro Sartore