Zárate è un posto di snodo. Il Paranà vi scorre accanto, quasi a benedire centomila concittadini. In linea d’aria l’Uruguay è vicino, lo vedi, lo senti. In macchina, Brasile e Paraguay non sono lontani. Sul piano calcistico non avrà grande storia, a nominare Zárate viene più che altro in mente Maurito, ex di Lazio, Inter e Fiorentina. Ma la città sta su una strada calcisticamente unica. Nello spazio di 300 chilometri, quello che va da Rosario a Lanús, 12 km. da Buenos Aires, grazie all’AU 9 si viaggia nella storia: da casa di Messi si va a casa di Maradona, passando per San Nicolas de los Arroyos, dove è nato (e morto) Omar Sivori. E un centinaio di chilometri più avanti c’è proprio Zárate, città portuale che ha dato i natali a un altro diez. Non il più forte, perché i punti estremi della carretera non lasciano scampo, ma di certo uno dei più geniali. Sottovalutato in Europa, non in Argentina. Questa è la storia di Ricardo Bochini, e se Diego lo chiamava senza mezzi termini Maestro, tranquilli: il motivo c’è.
Non a chilometro zero
Un giocatore che trascorre l’intera carriera in una squadra è sempre più raro, sostiene una vulgata un po’ banale. Ma nella banalità sprazzi di verità si trovano spesso, altrimenti sarebbe bugia. E la banalità, la briga di inventare non se la prende. In Argentina Ricardo Bochini ha giocato per venti stagioni con la maglia dell’Independiente. Non sarà in assoluto la squadra più prestigiosa della Primera División ma rimanerci per due decenni è un segno tangibile di fedeltà e di attaccamento. In ogni caso, quella dei “diablos rojos” è una maglia molto importante. Onorarla è un premio non certo riservato a chiunque. Tra il 1972 e il 1991 El Maestro, come oggi quasi tutti lo chiamano, colleziona 638 partite, 97 goal, vincendo quattro campionati, quattro Coppe Libertadores e due Coppe Intercontinentali.
Bochini nasce dunque a Zárate il 25 gennaio 1954, ha un talento naturale spiccatissimo ed è piccolo di statura, fin troppo smilzo. Chiare origini italiane, il nonno era di Palermo. È vero, Zárateè sulla strada giusta ma Baires è ancora lontana. Tanto vale provare a chilometro zero, nelle giovanili del Belgrano. Qualcosa non va, secondo qualcuno il ragazzo non ha la faccia da calciatore e sul piano fisico non ci siamo. E allora il numero di chilometri previsto per cercare di emergere si allunga. Diego Garcia, tecnico del Boca Juniors lo prova e rimane ben impressionato. Piedino educato, testa alta, visione di gioco. Tutto ottimo ma anche secondo lui manca qualcosa dal punto di vista fisico. Fragile, piccolo di statura, e gli sembra anche poco carismatico per dover essere il fulcro del gioco. Non lo scarta ma nemmeno lo prende e nel calcio un’esitazione in sede decisionale può costare cara. L’Independiente osa dove altri tentennano, quel Bochini non sarà Maciste ma sembra avere la maglia numero 10 tatuata sulla schiena. Abile, arruolato. La faccia non conta, conta il resto.

Non sembra, ma…
Presto comincia a girar voce che nel settore giovanile gioca un ragazzo dall’aria tristanzuola, ma dai piedi telecomandati. A guardarlo appare in effetti un diciassettenne con l’aria del nonno di sé stesso ma quando non c’è lui neanche a farlo apposta l’inventiva manca. In quegli anni, siamo nella prima metà dei Settanta, l’Independiente de Avellaneda è una buona squadra che potrebbe anche fare di più se al centro del gioco governasse una filosofia un po’ meno plumbea. Lo chiamano resultadismo, in confronto il catenaccio italiano è avanguardia pura. Poca attenzione alla forma conta solo vincere. Le eccezioni in quegli anni sono poche, a ben vedere il solo Menotti e il suo Huracan deviano da una sorta di pensiero unico consolidato.
Ricardo Bochini è forma e sostanza, il classico raggio di sole in un orizzonte tetro. E lo si capisce quasi subito. Ha 18 anni quando esordisce in prima squadra, poche apparizioni è la maglia numero dieci è sua. Il ragazzino di Zárate impone un talento cristallino fatto di passaggi eleganti mai fini a sé stessi, di gol molto belli, di un incedere palla al piede e di assist calibrati che riconciliano con la bellezza. Nei vecchi potreros argentini giocavano liberi, anarchici, fantasiosi. Uno come El Bocha (in Argentina dal soprannome nessuno sfugge) serve come il pane. Lo vedi in faccia e non lo diresti mai, c’è anche una grinta invidiabile nascosta da un’aria falsamente dimessa. Sui contrasti non è uno che si tira indietro, poi viene fuori tutto il resto. I fondamentali fanno la differenza.
Brutto calcio, ma anni d’oro
Negli anni Settanta l’Independiente non si limita a contendersi la supremazia cittadina con il Racing, dopo una certa pausa di riflessione è una formazione tornata agli splendori del decennio precedente. In Argentina e all’estero. Nella decade in questione la squadra vince il campionato argentino quattro volte e in altrettante occasioni fa sua la Coppa Libertadores. Nel 1973, un anno particolare che vede l’Huracan campione d’Argentina e il ritorno al potere del vecchio generale Perón, i diavoli rossi di Avellaneda fanno la doppia impresa. A giugno diventano campioni del Sudamerica superando nella doppia finale i cileni del Colo Colo, a novembre diventano campioni del mondo conquistando l’Intercontinentale ai danni della Juventus. Gioco difensivista, nessuna concessione all’estetica.
In una squadra dove quasi tutti di nome fanno Miguel Angel o Eduardo, la partita con i bianconeri la risolvono un gioiello a pallonetto dell’unico Ricardo Enrique in campo e un rigore fallito da Cuccureddu. La bellezza non sarà tutto, stavolta però la singola giocata vale una Coppa. Per uno come il 10 dell’Independiente dovrebbero aprirsi in automatico le porte della Nazionale ma nulla è semplice come dovrebbe. Pressioni politiche, si dice, necessità di gente più combattiva a centrocampo (anche a scapito della qualità, a volte), sta di fatto che El Bocha non andrà oltre undici presenze con la maglia dell’Albiceleste. Un rammarico relativo, per i tifosi dei diablos: vorrà dire che Ricardo sarà tutto per loro. E così sarà.
Idolo nazionale
Nel corso degli anni salirà alla ribalta un altro numero 10. Viene da Lanús, il punto estremo a sud dell’autostrada di cui parlavamo all’inizio. Diego Armando Maradona (1960-2020) diventerà la stella planetaria che oggi tutti conosciamo ma anche lui non potrà non dichiararsi un fan di Bochini. El pase bochinesco, quel precisissimo passaggio filtrante che mette il compagno di squadra a tu per tu con il portiere avversario, ha fatto innamorare anche Diego:
Bochini è stato il mio idolo da bambino. Ho imparato tanto guardandolo, per me è stato un maestro senza mai essere mio allenatore.
E quando nel 1986 i due saranno campioni del mondo con la Nazionale argentina el pibe de oro rincarerà la dose:
Ho realizzato uno dei miei grandi sogni: giocare insieme a Bochini. Per me, è un onore indescrivibile.
In vita Maradona avrà avuto tanti difetti, l’ipocrisia o la falsità non risultano tra quelli. Se è lui a fare un complimento del genere si possono mettere le mani sul fuoco sulla sincerità della dichiarazione. Diego impazzisce per le doti tecniche del Bocha, ma anche per uno stile di gioco umile ed efficace, per l’esempio che Ricardo rappresenta in termini di integrità morale e dedizione al gruppo. Proprio perché lui è una primadonna (e non potrebbe essere diverso) ama chi sa mettere la squadra al primo posto, essere capace di inventare giocate al di fuori della vanagloria. Anche Diego è un po’ così ma ci sono talenti e talenti. Il suo, a nascondersi proprio non ce la fa. Non è una colpa, è un destino. In un Paese che in assenza di storia antica ha bisogno di miti, Ricardo Enrique Bochini è un mito di poche parole e pochi sorrisi. Sono i fatti quelli che contano, è lo spogliatoio che esprime chi sei.

Il colpo del maestro
Prima di essere campione del mondo 1986 (con soli dieci minuti giocati contro il Belgio in semifinale) El Bocha è protagonista di un’altra impresa molto importante. Undici anni dopo l’Intercontinentale con la Juventus, ne vince un’altra. È il 1984 e stavolta l’Independiente batte il Liverpool (leggi qui la cronaca del match). Una sfida in rosso: rojos contro reds. La solita squadra molto resultadista contro un’altra che appare l’ombra di sé stessa. Rispetto al passato la formula dell’Intercontinentale è cambiata, partita secca con sede a Tokyo e vinca il migliore. Parola di Toyota, sponsor dell’evento. La tensione si coglie ed è di natura extrasportiva.
La battaglia sarà la prima risposta a una guerra, quella che due anni prima inglesi e argentini si erano fatti per il possesso delle isole Falkland/Malvinas. Vendicarsi in campo della sconfitta militare significherà (e non solo per chi tifa Independiente) togliersi una soddisfazione significativa. E così sarà. Un gol di Percudani, figlio di una manovra condotta dai giocatori di maggior tasso tecnico, Burruchaga e Bochini, riempirà d’orgoglio milioni di connazionali. Campione del mondo per squadra di club e per squadra nazionale, potrebbe bastare così. No, senza calcio non si può stare. Bochini va avanti fino al 1991, un brutto incidente di gioco mette fine a una carriera bella, che avrebbe potuto essere ancor più bella.
È il 5 maggio e all’undicesima giornata del Clausura si affrontano Independiente ed Estudiantes. Verso la fine del primo tempo un’entrata-killer di Erbin fa letteralmente volare Bochini. Si capisce subito l’entità del fallo, il cartellino rosso non compensa il danno ricevuto. El Bocha ha 37 anni e decide di chiudere. Per i tifosi è uno shock, l’1-1 finale interessa poco. Il gol di Alfaro Moreno, che pareggia quello di Mac Allister, è più che altro il pretesto collettivo per sfogare l’amarezza sugli spalti. “Morto” un Ricardo Enrique Bochini, non se ne farà un altro. Sarà un caso ma da quel momento finisce l’Era d’Oro dei diablos rojos. Numeri dieci come El Maestro, ne nascono mica tanti. Anche i maestri sono pochi e di norma li riconosci con facilità. Se glielo chiedi, negano sempre di esserlo. Diffidare da chi risponde sì.