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Omar Enrique Sívori: eroe a cavallo, faccia sporca, capelli al vento

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Esattamente cent’anni dopo il primo, un altro Eroe dei dei due mondi apparve sulla scena, direttamente sul proscenio, a scuotere coscienza e fantasia degli italiani, adesso uniti sotto un’unica bandiera e già calciofili. Quello, a cavallo, imprendibile e inseguito da nemici, avventuroso e avventuriero, drammaticamente vittorioso e tristemente obbediente, conquistatore di giustizie e di cuori, inviso ai politici e rivoluzionario dolce al servizio degli oppressi, ovunque fossero. Anche nell’altro emisfero. Questo a piedi e quasi scalzo, scaltro e sfuggente, imprendibile e inseguito dagli avversari, vittorioso e irridente, gaucho e selvaggio con le pampas negli occhi e un portiere tra sé e la gloria, conquistatore di Trofei e cuori, inviso ai benpensanti, ma rivoluzionario dolce al servizio… dei potenti. Fossero anche in questo emisfero, ricchi e fabbricanti di automobili.

Garibaldi e Sívori, due anime guardinghe e girovaghe, osannate per motivi molto simili ma che più difformi non potrebbero essere al di qua e al di là dell’oceano, avrebbero in realtà moltissimi altri elementi in comune, dalla folta capigliatura leggermente fuori moda al rapporto particolare con la città di Torino, polo refrattario per Giuseppe quanto attrattivo per Omar. Forse è bene però tralasciare le gesta eroiche di uno dei “Padri della Patria” e focalizzare queste brevi considerazioni su uno dei giocatori migliori e più discussi che l’inesauribile scuola argentina abbia regalato al calcio italiano.

Sivori con il Pallone d’oro

Omar Enrique Sívori arrivò alla corte degli Agnelli e della Juve nell’estate del ’57, poco prima di compiere 22 anni ma, nonostante l’età verdissima, non si può certo sostenere che quello dei bianconeri fosse una scommessa, un investimento solo in prospettiva. El Cabezon, chioma e proporzione tra testa e corpo spiegano a sufficienza l’epiteto, sbarcò qui infatti da giocatore affermato, quasi da stella già molto brillante. Così come i connazionali Angelillo, destinato all’Inter, e Maschio, accasatosi a Bologna. Erano tre dei famosi cinque Angeli dalla faccia sporca, gli altri due erano Corbatta e Cruz, che formavano la prima linea della Albiceleste argentina che vinse la Coppa América del 1957.

Era un’Italia, quella degli anni ’50, che faticava a uscire da un dopoguerra ancora cupo e la valvola di sfogo delle tenzoni domenicali era talmente compressa che bastava un cerino anche umido e un debole vento per infiammare animi, cuori, bandiere e trombette rubate all’auto. La passione del calcio era una guerra buona, quasi scherzosa, alla vigilia, ancora per fortuna un po’ lontana, di diventare seria, tremendamente seria. La difesa della propria porta era quella della casa, della famiglia inviolabile, il gol era la conquista, la rivalsa, la gloria. Ma i calciatori però parevano soldati, molto lo erano davvero, e le formazioni in campo truppe schierate. C’era insomma, nel lessico, nel linguaggio dei commenti e perfino nella ricostruzione plastica o fantastica delle partite, perfino nei toni dei radiocronisti qualcosa di ancora troppo bellico. L’arrivo dei tre angeli abbronzati, specialmente quello di Sívori, agì quasi da interruttore di libera espressione, da sipario per un cambio di scena. Era l’ingresso in scena della trasgressione, sia pur timida e ingenua.

Un uomo piccolo e furente, già vincente come detto al suo paese, con movenze leggermente effeminate come lo saranno quelle di Diego Armando, venuto  a sconvolgere certezze e a rovesciare i tavoli dell’equilibrio. Non che la Juventus non fosse fortissima e vincente anche prima, ma non c’è dubbio alcuno sul fatto che Omar Sívori, liberatosi di Angelillo e Maschio e sostituiti con Charles e Boniperti, abbia cambiato definitivamente pelle al mondo bianconero e, probabilmente, a tutto il calcio italiano.

Maschio, Angelillo e Sivori: tre dei cinque “Angeli dalla faccia sporca”. Gli altri due erano Cruz e Corbatta. Fu la linea d’attacco famosissima con cui l’Argentina vinse la Coppa América 1957

Come c’è riuscito? Quali le sue armi? Qui la risposta e le analisi si fanno complesse. Non tanto per la difficoltà a individuarle: sono principalmente tre e dopo ne parleremo, quanto per il fatto che queste attitudini, queste doti sono state anche le sue fissazioni, anche se può sembrare assurdo, i suoi limiti e, in sostanza, la ragione per cui la sua carriera è stata meno fulgida di quello che avrebbe potuto e dovuto essere. Tanto che la considerazione postuma di lui lo pone molto al di sotto del suo obiettivo valore assoluto.  

Tre tratti appunto che, attorno a quel fascio di nervi e muscoli compatto e strafottente, calzini arrotolati e maglietta di due misure superiore, ne hanno fatto il simbolo vincente e un po’ surreale della vittoria larga, contro tutto e contro tutti,  irridendo oltremisura gli sconfitti come per una vendetta covata da sempre. Sivori è stato il re del dribbling, l’imperatore del tunnel e il dominatore del gol. Per lui giocare era soprattutto superare l’avversario diretto e il gesto tecnico di fargli passare il pallone in mezzo alle gambe era per lui il segno del trionfo. E siccome la misura e la moderazione gli erano sconosciute, anzi lo infastidivano, ne eccedeva spesso fino al parossismo.

Certo non si faceva troppi amici tra i difensori avversari, ma questo sembrava non importargli granché e comunque, anche se il tunnel non appariva allora così offensivo e inaccettabile come oggi, qualche calcione sugli stinchi nudi in risposta lo ha ricevuto, eccome! Quando capitava ciò, si scatenava il secondo tratto del giovane Sivori che non gli ha giovato a carriera e reputazione: l’isteria. Una recita, tipica di quella sindrome, non tanto per fingere quanto per enfatizzare o, comunque, per protestare. Ecco allora l’angelo perseguitato, il bambino incompreso, la vittima incatenata che si ribella, che scalcia e che trasforma, istericamente appunto, la spesso presunta ingiustizia subita in una sceneggiata tragicomica e melodrammatica.

Eppure, la Juve di quegli anni, a cavallo tra i cinquanta e i sessanta, è stata molto vincente e quasi imbattibile, soprattutto per merito dei gol proprio di Sivori che, dopo aver vinto tre campionati in Argentina con il River Plate, il primo neanche a vent’anni, ne vinse altri tre in bianconero. L’ultimo fu nel 1961, un anno che sarebbe stato un vero spartiacque nella vita e nella carriera del funambolo gaucho e, per certi versi, anche della Juventus.

Dicono che ogni epoca ha i suoi assi. Un asso chiamato Sivori non è di un’epoca o di un’altra. Il tunnel che egli inventò sventrava le montagne dei cuori umani nel senso del divertimento massimo che trasmetteva con le sue imprese che volevano essere ridanciane ma forse erano disperate.

Vladimiro Caminiti

1961, centenario dell’Unità d’Italia, fu l’anno in cui la gloria di Giuseppe Garibaldi, centrattacco capelli al vento e volto barbuto del tridente con Mazzini e Cavour, raggiunse il suo apice. Le piazze e i Circoli in suo nome si moltiplicavano a dismisure, migliaia di neonati maschi si chiameranno come lui e le femmine Anita, la sua sposa pasionaria che morì sul Po. È il tripudio che incollò ancor di più, ma mai ahimè definitivamente, il meridione al resto del paese, e chissenefrega, almeno quest’anno, di Teano… Ma il 1961, anche plasticamente, è anno strano, numero unico. Se lo capovolgi da sotto in su rimane uguale. E per l’altro ‘eroe dei due mondi’ sarà incredibilmente proprio così. Vinse un altro scudetto, ma a soli 27 anni sarà il suo ultimo, cedette alle lusinghe della Federazione e, in virtù di un nonno ligure e di una madre abruzzese, divenne italiano arruolabile in azzurro, proiettando la sua popolarità italica allo zenith, ma facendo crollare quella in Argentina, dove si sentirono traditi, ai minimi livelli.

Oggi sarebbe impossibile convocare in Nazionale un giocatore che abbia già difeso altri colori, ma quelli erano anni ruggenti, l’attesa per i prossimi Mondiali in Cile quasi febbrile, la rosa degli azzurrabili nati qui ricca ma non profumatissima, ed ecco quindi, oltre a ricerche affannose di antenati italici (ci sarebbe stato anche un tentativo per far passare da molisana una nonna di Jair..!), la concessione della deroga sportiva elargita senza andar tanto per il sottile. E, oltre a Sormani, Altafini, Montuori e altri, anche Humberto Maschio e Antonio Valentin Angelillo, i già citati Angeli dalla faccia sporca, furono naturalizzati (sostantivo orrendo…) italiani con una bella pietra sul passato di molti di loro. Del resto, se proprio vogliamo dirla tutta, in questo favoloso 1961 anniversario di gloria, testimone di gesta calcistiche trionfali e vigilia di sicuro splendore, non celebriamo forse chi ha rischiato la pelle per difendere i deboli e i vessati in Uruguay, ma pure in Brasile e Argentina? Se Garibaldi ha moglie e primogenito brasiliani e l’altro figlio uruguagio, possibile che questi giovani atleti che portano il cognome dei nostri vicini di casa non siano dei nostri? Beata globalizzazione! Ma dovremo aspettare più di mezzo secolo…

Charles, Sivori e Boniperti: magico tridente d’attacco della Juventus tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60

Tornando al nostro Omar e al suo incredibile 1961, c’è un ultimo episodio emblematico del suo modo di essere, di vivere e di concepire il calcio e il suo rapporto con la felicità del gol. Della sua maniacale ricerca, esattamente come quella del dribbling come atto di superiorità. Abbiamo già detto che lo scudetto 1960/61 lo vinsero i bianconeri e abbiamo già raccontato in altro pezzo le circostanze molto particolari legate alla battute finali di quel campionato: partita rinviata a Torino, 0-2 per l’Inter poi revocato eccetera.  L’atto veramente conclusivo di quella stagione si svolse il 10 giugno 1961 e di fronte si trovarono la Juventus appena laureata matematicamente Campione d’Italia e una formazione giovanile dell’Inter, così schierata da Moratti padre e HH in segno di sdegnata protesta.

I torinesi, schierati nell’assetto migliore, non ebbero alcun atteggiamento di leggerezza verso i ragazzini avversari e si imposero impietosamente per 9-1. Un’umiliazione assurda quanto fuori luogo, resa ancora più sportivamente fastidiosa dall’atteggiamento proprio del Cabezon che fece di tutto per impossessarsi anche del titolo di capocannoniere del torneo. Gli servivano otto gol per raggiungere il sampdoriano Brighenti in cima alla classifica, nove per superarlo. Si fermò a sei, strepitando da par suo per un rigore non concesso e per una rete annullata per fuorigioco.

Un’esibizione muscolare, e finita non benissimo, obiettivamente imbarazzante per un atleta di quel livello, ma che descrive in modo esemplare grandezza possibile e limiti reali del personaggio. Dopo quell’episodio, che per nemesi coincise con l’esordio e il primo gol in Serie A di un diciottenne Sandrino Mazzola, la Juventus imboccò una strada impervia che la condusse a vincere un solo Campionato nel decennio appena iniziato e, in parallelo, anche per Sivori iniziò, come detto, una parabola discendente, in bianconero e non solo. Parabola che lo portò prima a trasferirsi sotto il Vesuvio e poi, a soli 33 anni, ad appendere le scarpette al più fatidico dei chiodi. Prima di lasciare quell’incredibile e fatidica annata, il ’61, è giusto ricordare che essa si concluse con l’assegnazione del Pallone d’Oro proprio a lui, novello italiano ed europeo, dal momento che allora il premio era riservato solo ai calciatori del nostro continente. Ma è anche doveroso e curioso notare che fino a quando Sivori è stato un calciatore argentino, egli ha mietuto successi a ripetizione mentre, una volta divenuto italiano, non ha più vinto nulla. Infatti, anche il prestigioso titolo coniato da France Football, più che una vittoria, è un riconoscimento.

Il suo trasferimento a Napoli nel ’65 fu un nuovo cambio di cittadinanza, il tradimento inaspettato di una bandiera non ammainabile in casa Savoia (o Agnelli, non cambia molto…) e di un approdo entusiasmante a casa Borbone (o Lauro, è uguale…). Insomma, dal Sudamerica allo Stivale, da Torino a Napoli! Ma, allora, è proprio Garibaldi! Il suo apporto ai partenopei è funzionale a scatenare un entusiasmo viscerale che da allora, pur con fasi un po’ di stanca, a quelle latitudini deve ancora scemare. E il suo gemello Altafini, transfuga dalla Milano rossonera, l’esterno Faustinho Canè e l’allenatore Bruno Pesaola, il grande Petisso, portarono definitivamente il Sudamerica a Margellina e il Napoli azzurro a fare il solletico da vicino alle grandi. Sivori è un’anticipazione, quasi perfino fisica, di Maradona, anche lui di spalla carioca, Careca, e condotto in panca da quell’Ottavio Bianchi che del Napoli anni ’60 era stato il mediano metronomo.

In conclusione, possiamo sostenere che Omar Sívori, uno dei giocatori più amati della Storia del Calcio italiano, ha vissuto tutta una carriera in dribbling alla ricerca del tunnel e che per questo forse ha ottenuto molto meno di quello che avrebbe potuto. È stato, per usare un ossimoro, un resultadista con il vizio del gioco o, se si vuole, un giochista troppo amante degli effetti. Certo è che, ovunque sia stato, ha lasciato un segno indelebile e ha inventato, sia a Torino che a Napoli, l’epopea della numero 10. Un’epopea che ha visto sfilare attori immensi al Comunale e al Partenope, al Delle Alpi e al San Paolo, in attesa di vederne altri all’Allianz e al Maradona. E magari, perché no?, anche altrove.

Grazie, Garibaldi con i calzettoni abbassati e senza parastinchi. Grazie, Omar a cavallo, faccia sporca, mantello e capelli al vento!

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