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Il “relazionismo” e il suo impatto sul calcio contemporaneo

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Proseguo il discorso aperto alcune settimane fa e dedicato al cosiddetto “dinizismo”, ovvero allo stile adottato dal Fluminense e io direi anche dal Gremio, anche perché per una volta sono stato un felice profeta (Diniz è diventato CT, anche se ad interim, della nazionale brasiliana); nel primo pezzo, ho parlato di come questo stile affondi le radici nella tradizione carioca, in tutto il suo bagaglio di vezzi, giocate istintive, atteggiamenti civettuoli e di come sia al tempo stesso moderno, una sorta di guardiolismo a-posizionale, per sviluppare alcune ulteriori considerazioni sul punto.

Con mia notevole sorpresa, spulciando fonti varie, nelle ultime settimane ho appreso che in Brasile il “dinizismo”, ovvero ciò che io ho definito un guardiolismo a-posizionale, viene considerato invece una negazione del guardiolismo, e non nego di essermi grattato la testa a lungo in cerca di una spiegazione convincente di questa teoria.

In fin dei conti, il Fluminense sviluppa azioni come quella sotto riportata, il Gremio si è incamminato sulla stessa via, ed è difficile per me non vedere in questi scambi veloci, nei gesti tecnici dei singoli e collettivi lo spettro del calcio latino e posizionale implementato dal tecnico spagnolo circa quindici anni fa, dopo un lungo letargo, e oggi messo in pratica da molte squadre, che siano l’Arsenal o a modo suo la Lazio.

Anche i numeri, in qualche modo, sembrano corroborare la mia tesi: Fluminense e Gremio dominano il possesso palla con percentuali barcelloniane, giocano di prima, costruiscono l’azione anche con i difensori e vedono spesso sette, otto giocatori coinvolti nella manovra, nell’arco di pochi secondi: anche questi sono tutti chiari sintomi di guardiolismo, cruijffismo o come preferiamo chiamarlo.

Eppure, i cronisti e gli appassionati brasiliani e molti studiosi anche europei la vedono diversamente, e considerano Guardiola il portavoce di una filosofia, tutto sommato, piuttusto vicina a quella di Klopp e di Mourinho (tre tecnici che secondo noi vivono in tre pianeti diversi) e lontana da quella di Diniz o comunque adottata da alcune squadre del paese verdeoro.

Forse un aneddoto avvicina la spiegazione: come anticipato nel primo pezzo dedicato al tema, illustri ex campioni brasiliani hanno apertamente denunciato, dopo l’eliminazione subita dalla nazionale verdeoro ai quarti dell’ultimo mondiale, la sua deprecabile tendenza a seguire le orme degli europei, snaturando l’essenza del calcio sudamericano. Eppure, la nazionale di Tite ha schierato in campo quattro o cinque giocatori votati alla costruzione, spesso molto abili nell’uno contro uno e comunque capaci di regalare acrobazie palla al piede; anche chi scrive, pur essendo un brasilofilo accanito, ha rimproverato alla nazionale verdeoro i suoi vizi atavici, ovvero la tendenza alla distrazione, i cali di concentrazione, una vecchia, inguaribile inclinazione narcisista. Come è possibile, pertanto, che Zico e Rivelino abbiano invece visto nella loro nazionale una vocazione europeista e che abbiano individuato in questa vocazione il primo e principale problema della squadra?

Credo che il concetto nevralgico, quello che scava un solco profondo tra la nostra e la loro visione del calcio, sia quello di posizione: benché ai nostri occhi appaia molto fluido, e lo sia, il calcio di Pep, e di rimando anche quello di Klopp, che per molti versi gli è più simile di quanto non si pensi, assegnano un ruolo cruciale al concetto di posizione e di gestione dello spazio, e come abbiamo già illustrato lo stesso vale per Mourinho, la cui dottrina è imperniata sulla gestione scientifica dello spazio in fase difensiva, e sulla sua aggressione in fase offensiva.

Siamo arrivati al dunque: secondo i brasiliani, proprio la comune preoccupazione per la dimensione spaziale avvicina tra loro i tecnici europei e li rende tutto sommato, ai loro occhi, piuttosto simili; il fatto che un tecnico prediliga che i suoi abbiano spesso la palla tra i piedi e un altro dedichi invece maggiori energie alle strategie contenitive non è esiziale, nella prospettiva sudamericana, perché tutte le squadre europee di alto livello, se venissero posizionate sull’asse che collega i due poli “organizzazione” e “caos”, sarebbero molto più vicine al polo “organizzazione”, e questo per i brasiliani è l’elemento distintivo del nostro calcio, ciò che lo distanzia da loro calcio.

Nel calcio dei sudamericani, infatti, l’organizzazione è un valore secondario e la loro gestione collettiva del gioco, il loro tiki-taka si fonda su principi diversi, più “associativi”, si fonda su quello che – come sappiamo – la critica ha denominato “relazionismo”: i giocatori si avvicinano e si passano il pallone velocemente per sabotare l’organizzazione difensiva avversaria, ma quasi nessuno dei giocatori deve occupare una posizione specifica né si vede assegnato un compito specifico.

Da qui, appunto, l’idea che lo spazio e la sua amministrazione siano subordinati all’esigenza di mettere i giocatori in relazione tra di loro attraverso il possesso palla, e questo approccio provoca spesso quello che si chiama overload, un sovraccarico di giocatori in una parte del campo, proprio perché l’efficacia del loro gioco dipende dalla loro vicinanza.

Fatta chiarezza su questo punto, mi sono chiesto: la strategia relazionista può funzonare in Europa? Rappresenta davvero, come hanno ipotizzato anche alcuni giornalisti inglesi, la nuova frontiera del calcio? Onestamente, io nutro qualche dubbio.

Ancorché possieda elementi di novità e abbia assimilato alcune idee del tiki-taka europeo, lo stile relazionista rimane profondamente sudamericano e lontano dai nostri canoni, forse incompatibile con la maggioranza degli stessi, specie se parliamo di Italia: nel nostro paese credo sia molto improbabile adottare un approccio relazionista e sperare che funzioni. Un giornalista brasiliano ha evidenziato come i loro giocatori imparino di fatto il relazionismo sin da ragazzi, come sia parte della loro didattica, e come pertanto Diniz e altri l’abbiano solo in qualche modo “sistematizzato”, reso una filosofia di gioco ufficiale. In Europa la didattica funziona diversamente e si fonda su regole e canoni incompatibili con questo calcio puramente associativo. A oggi, pertanto, mi sento di escludere che le nuove idee adottate dal Fluminense possano diventare il nuovo paradigma mondiale di riferimento.

Ho però scoperto che in Europa esiste già una squadra che si ispira dichiaratamente al Fluminense: si tratta del piccolo Malmö, che gioca nel campionato svedese. Henrik Rydström, il suo tecnico, in una recente intervista ha dichiarato che il suo calcio è figlio delle novità verdeoro, del vento che soffia dal Brasile, che non esiste nulla di simile in Svezia e forse in Europa, e ha aggiunto “Possiamo prevedere, per ogni squadra che affrontiamo, in quale posizione si troveranno i suoi giocatori. Questo approccio, che rispettiamo e che domina da sempre l’Europa, non mi motiva e non motiva i miei giocatori“.

Il tecnico svedese associa la sua predlizione per l’associazionismo di matrice brasiliana, e anzi sarebbe più corretto dire carioca, alla sua vocazione artistica: è laureato in lettere e si occupa da anni di recensire “weird bands” su riviste musicali, e questo, a suo dire, l’ha avvicinato a un’estetica bizzarra, lontana dal perimetro del calcio europeo e ancora di più da quello svedese. Rispetto al Fluminense, il Malmö conserva una struttura un po’ più chiara e solida, specie in fase difensiva, e schiera a volte anche due pivot davanti alla difesa. Il caos relazionista di alcune squadre brasiliane resta quindi in parte un’altra cosa, ma ho assistito a numerose azioni del team svedese che sono chiaramente diniziste e le parole del suo tecnico hanno confermato che avevo visto bene.

Sarà solo il tempo a dirci se un linguaggio quasi puramente sudamericano sarà in grado di affemarsi anche ai vertici del calcio europeo, con tutto il rispetto per il Malmö. Per ora, io mi limito a prendere appunti, perché quando si aprono squarci verso futuri possibili tendo sempre a drizzare le antenne.

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