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Mondiale che vai nazionale che trovi: lo stile e le filosofie di gioco delle 32 squadre che si sono affrontate nella fase a gironi

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Piuttosto che parlare di moduli, schemi, 4-3-3, 4-4-2, diagonali e sovrapposizioni può essere un esercizio utile e dilettevole cercare di descrivere la filosofia calcistica delle nazionali che partecipano a questo discusso mondiale qatariota. Infatti, nonostante siamo immersi in un’epoca che più globalizzata non si può, ogni Nazionale continua ad essere depositaria di un particolare D.N.A. che poi si manifesta sul terreno di gioco. Alcune nazionali hanno visto snaturare questo loro particolare “codice”, altre invece sono rimaste ancorate alla loro tradizione calcistica. Altre ancora hanno saputo mescolare elementi della loro vecchia scuola ad altri frutto delle nuove mode ed esigenze. Cerchiamo ora di descrivere lo stile di gioco di ogni nazionale, girone per girone.  

Gruppo A: Olanda, Senegal, Ecuador, Qatar

Mediocre per cifra tecnica, il Gruppo A ospita una delle nazionali che più si sono snaturate dal punto di vista calcistico, parliamo dell’Olanda di Louis van Gaal. Gli inventori del Totaalvoetball da più di un decennio si sono riconvertiti ad uno stile molto più pratico che sul campo si modella su un 3-5-2 che fa grande affidamento soprattutto sulla difesa (con van Dijk che è uno dei migliori interpreti al mondo), e su rapidi contropiedi verso due punte agili come Depay e Gakpo, lo stesso canovaccio già visto nel 2014 in Brasile sempre con l’antipaticissimo van Gaal allenatore. Non è un caso che questo cambiamento nello stile di gioco sia avvenuto sotto la gestione di questo vecchio santone del calcio olandese, un tecnico che da giocatore è stato allevato nel vicino Belgio (ad Anversa) da Guy Thys, uno dei padri del difensivismo fiammingo. van Gaal, nonostante successivamente sia entrato nel mondo Ajax, diventando un continuatore sulla panchina biancorossa della filosofia cruijffiana, ha sempre conservato questa formazione calcistica molto rigida e schematica, meno libertaria di quella michelsiana, tutta eredità degli anni trascorsi da calciatore in Belgio.

Si è un po’ snaturato anche il Senegal, squadra che non gioca più il calcio offensivo e brillante del 2002, quando la squadra africana fu la sorpresissima dei mondiali di Corea del Sud/Giappone sotto la guida del capellone Bruno Metsu. Con l’attuale gestione di Cissé, ex difensore, la squadra sembra molto più affidarsi alle parate del suo portiere Mendy (incerto contro l’Olanda) e agli strappi offensivi di Mané, assente a questo mondiale. Nonostante l’assenza del giocatore del Bayern i senegalesi hanno fatto intravedere un buon collettivo e una buona organizzazione di base che ha permesso l’oro di qualificarsi agli ottavi.

Classica squadra sudamericana “figlia di un Dio minore” è l’Ecuador, allenata dall’argentino Alfaro, applica i classici dettami “offensivi” della scuola rioplatense anche se con calciatori di non eccelsa qualità; Caicedo che alle nostre latitudini giocava in attacco in nazionale fa la mezzala per esempio. Non a caso gli ecuadoregni hanno fatto a fette una squadra sconclusionata come il Qatar mentre si sono fatti uccellare da una squadra più organizzata e difensiva come l’Olanda, pur giocando a tratti meglio degli olandesi.

Praticamente ingiudicabile infine il Qatar, nazionale che non è parsa così mediocre come è stata dipinta, che ha probabilmente patito il fatto di dover giocare in casa oltre ad un ritiro folle di sei mesi che ha un po’ scombussolato la truppa dello spagnolo Félix Sánchez (scuola Barcellona).

Louis van Gaal calciatore dell’Anversa

Gruppo B: Inghilterra, Galles, Stati Uniti, Iran

Difficile che un paese così conservatore (dal punto di vista calcistico e non solo) come l’Inghilterra si snaturi dal punto di vista calcistico nonostante il suo movimento calcistico sia ormai diventato la stazione principale del calcio globalizzato. La Nazionale allenata da Gareth Southgate rappresenta quindi una sorta di ibrido tra timida innovazione e atavico conservatorismo albionico. I Tre Leoni non giocano più infatti con il loro tradizionale 4-4-2, effetto dell’arrivo oltremanica di due personaggi come José Mourinho e Rafa Benitez nei primi Anni Duemila, e fraseggiano molto di più in mezzo al campo (retaggio questo del guardiolismo) con il proprio centravanti Harry Kane che funge da uomo di manovra più che da finalizzatore puro. Tuttavia la squadra di Southgate è sempre capace di sfruttare armi tipicamente britanniche come l’inserimento dei centrocampisti (Bellingham è il classico tuttocampista della schiatta dei Charlton o dei Lampard) e i traversoni dalle fasce. Resiste anche l’atavica tara, da Alf Ramsey in avanti, che vuole i selezionatori inglesi particolarmente riluttanti nel consegnare le chiavi della squadra a talenti puri anche se un po’ anarcoidi come Phil Foden, che Southgate antepone nelle gerarchie al più lineare e tipicamente britannico Mason Mount. Lo stesso discorso può essere fatto per Trent Alexander-Arnold che in difesa viene sacrificato in favore del più lineare ed esperto Kieran Trippier.

Molto britannico anche il Galles, squadra rimasta ancorata all’ultraconservatore ed ultrapragmatico palla lunga e pedalare verso la stella (cadente per altro) Gareth Bale. Approccio che ha funzionato ad Euro 2016, quando i gallesi furono la massima sorpresa della manifestazione, un po’ meno in questo mondiale.  

Gli Stati Uniti, da nazione “nuova” e imperialista anche se refrattaria al calcio, adottano un calcio molto arioso e offensivo, quasi arrogante e strafottente in pieno stile yankee. Non è un caso che nella selezione a stelle e strisce abbondano i talenti offensivi figli di una società multietnica (il croato Pulisic e gli africani Weah junior e Musah, l’ispanico Reyna) mentre scarseggia il materiale dietro e in porta.

L’Iran, infine, nazione invece tradizionalista ed antimperialista, adotta un calcio a chiara trazione posteriore, molto arroccato in difesa con un 4-5-1 di stampo iberico molto scolastico. Non è un caso che il C.T. iraniano sia quel Carlos Queiroz che in Portogallo è considerato il padre putativo della svolta pragmatica del calcio lusitano negli Anni Novanta.

Gruppo C: Argentina, Messico, Polonia, Arabia Saudita

Se l’Argentina nel 1978, firmata César Luis Menotti, era un’orchestra di grandi singoli mentre quella del 1986, griffata Carlos Salvador Bilardo, un grande collettivo al servizio della sua stella Diego Armando Maradona, quella attuale dei due Lionel (Scaloni e Messi, entrambi oriundi anconetani) sembra una sorta di ibrido sospeso tra la tradizionale impostazione della vecchia Nuestra (traduzione: mettiamo in campo più talenti possibile e chissenefrega della tattica) e la vocazione resultadista di aggrapparsi al grande solista con applicazione e rigore tattico. Fino ad ora l’albiceleste è stata un rebus che ha mostrato giocate di classe in alcuni suoi singoli (il giovane Julián Álvarez oltre ai soliti Messi e Di Maria) ma anche i suoi classici difetti: un estetismo decadente di marca iberica che si traduce in un gioco più fumo che arrosto e una certa emotività tipicamente italiana che si traduce in una certa difficoltà a interpretare i momenti di una partita. Anche l’Argentina, infatti, è un paese eternamente polarizzato e diviso in due (esattamente come il nostro!).

Paradossalmente il Messico, nazione di secondo piano nel calcio del continente americano, vanta da decenni un’impostazione tattica più definita di quella argentina seguendo canoni tipicamente menottisti da quando Luis Menotti divenne C.T. dei tricolori nei primi Anni Novanta. La squadra centroamericana si schiera infatti con un 4-3-3 di base, pratica un calcio posizionale basato su tecnica e fraseggio con molti giocatori che militano nel campionato messicano. Non è un caso che l’attuale C.T. sia un argentino, Gerardo “El Tata Martino”, adepto della setta di Bielsa, rosarino proprio come Menotti, Messi ed il Loco.

È un ibrido senza capo né coda anche la Polonia, squadra che rappresenta una nazione che per i propri potenti vicini (Germania e Russia) semplicemente non esiste o quasi. Non è un caso che la nazionale allenata dal faccione rubicondo dell’impronunciabile Czesław Michniewicz pratichi un calcio abbastanza ambiguo che combina il rigore tattico sovietico, la fisicità teutonica (Zieliński è giocatore tipico da Bundesliga) la tecnica e l’umoralità tipica degli slavi con un Lewndowski che si conferma capace di esaltarsi in grandi collettivi ma di deprimersi con elementi ordinari come contorno. In porta l’altro impronunciabile Szczęsny continua la grande tradizione di portieri polacchi da Tomaszewski a Dudek passando per Młynarczyk.

Molto curiosa invece l’Arabia Saudita allenata dal francese Hervé Renard, una nazionale che pratica un calcio che avrebbe fatto felice il grande Ernst Happel: difesa alta, fuorigioco, centrocampo tignoso e rapidi contrattacchi che hanno punito gli individualisti argentini. Uno strano esempio di collettivismo calcistico applicato in una delle ultime monarchie assolute del pianeta che ha fruttato una storica vittoria contro l’Argentina.

Il gioco dell’Argentina di Scaloni contro la Polonia

Gruppo D: Francia, Danimarca, Tunisia, Australia

La Francia è un’altra tra le nazionali europee che si sono “snaturate” in quanto a stile di gioco. Negli anni migliori la selezione transalpina ha sempre avuto sontuosi reparti di centrocampo (basti pensare al il famoso “Carrée Magique” degli Anni Ottanta Fernandéz, Tigana, Giresse, Platini) abbinati ad attacchi piuttosto mediocri (come dimenticare il mitologico Guivarc’h a Francia ’98). Da qualche anno a questa parte invece la nazionale transalpina può vantare su un reparto offensivo stellare con i vari Griezmann, Mbappé, Giroud, Benzema e su un centrocampo di puri gregari, sebbene di lusso come N’Golo Kanté (assente in Qatar). Tradizionalmente la Francia ha sempre praticato un gioco molto arioso e offensivo, il famoso “calcio champagne”, seguendo dei dettami perfezionati da Ştefan Kovács , ex tecnico dell’Ajax di Cruijff che negli Anni Settanta ha posto le basi della nuova école française e dei centri di formazione, il vero fiore all’occhiello della Francia calcistica. Oggi i nostri cugini transalpini praticano all’opposto un calcio molto pragmatico che si basa su fisico e cross continui dalle fasce. In difesa la squadra si schiera a quattro ma di fatto gioca a tre, secondo un canovaccio quasi all’italiana, con tre centrali puri (Pavard, Varane, Upamecano) ed un terzino mancino (Theo Hernández) di smaccata proiezione offensiva. Merito di questa mutazione genetica trasformazione è del C.T. Didier Deschamps, francese di etnia basca con un passato importante di calciatore in Serie A, che ha saputo instillare nel suo all star team rigore tattico italianista e stile di gioco tipicamente basco: corsa, fisicità, botte a centrocampo e traversoni dalle fasce per l’ariete centrale (figuri totemiche nel calcio basco da Zarra a Llorente). Non è un caso che Deschamps preferisca un centravanti d’area puro come Giroud ad uno di manovra come Benzema, giocatore per altro di classe superiore al milanista.

La Danimarca è invece la Nazionale più “latina” tra le germaniche assieme all’Olanda e continua a rispecchiare la mentalità e l’indole di un popolo pazzoide e marinaro. Anche l’attuale nazionale danese, che si schiera con un WM “aggiornato” (cioè con un 3-4-2-1 con il quadrilatero di centrocampo) e con giocatori di pura classe ma un po’ leggerini ed indolenti come Eriksen e Damsgaard, rispecchia la sua tradizionale nome di squadra bella ma lunatica. La nazionale scandinava infatti è stata capace di squagliarsi negli anni di maggiore fulgore (gli Ottanta) ai tempi della Danske Dynamite ma di vincere fuori tempo massimo un clamoroso europeo come quello del 1992, da ripescati e con mezza nazionale già in spiaggia, per giunta senza il suo fuoriclasse più rappresentativo, Michael Laudrup.

La Tunisia, ex colonia francese, è una nazionale che sa abbinare il tradizionale calcio arioso francese con irruenza tipicamente mediterranea; infatti, la nazionale nordafricana ha giocato ad armi pari contro due squadre più dotate sul piano tecnico come Danimarca e Francia (seppur imbottita di seconde linee), togliendosi la soddisfazione di una storica vittoria contro i loro vecchi colonizzatori.

L’Australia invece è una nazionale più tipicamente “anglosassone”, organizzata dal  suo C.T. Arnold con il classico 4-4-2 di stampo britannico con baricentro basso e transizioni in verticale. Anche grazie a questo approccio low profile i canguri sono riusciti a centrare gli ottavi di finale, un risultato ottenuto da uno stratega come Guus Hiddink nel 2006 con una squadra che applicava una zona appiccicosa e scorbutica.

Didier Deschamps con la sua classica faccia triangolare e dagli zigomi sporgenti tipica di ogni basco

Gruppo E: Spagna, Germania, Giappone, Costa Rica

Nonostante nell’ultimo decennio sia tornato di moda il calcio atletico e fisico, la Spagna di Luis Enrique continua ad essere il baluardo del tiki taka e del calcio posizionale seguendo i dettami della rivoluzione conservatrice varata dal duo Luis Aragones-Vicente Del Bosque. La Spagna calcistica, infatti, ha sempre giocato un calcio di tipo associativo basato su possesso palla e trame orizzontali, anche se in modo disarmonico non solo per la storica presenza di giocatori baschi nelle proprie file (abituati a giocare di fisico e di corsa con il loro “patapum pa arriba”) ma anche perché alle Furie Rosse è sempre mancato un determinato sistema capace di catalizzare le numerose anime calcistiche (e non solo) che compongono la frammentata nazione spagnola. Quel sistema è stato trovato nel Barcellona e da allora non è stato più abbandonato. La Spagna attuale non raggiunge forse i picchi estremi della gestione Del Bosque, che spesso giocava con sei/sette centrocampisti di ruolo con Fabregas finto centravanti, però è ancora estremamente ostinata a giocare per trame orizzontali fin dalla propria area di rigore. Se Pep Guardiola è stato il profeta che ha estremizzato il credo del duo Aragones/Del Bosque, Luis Enrique è uno dei suoi epigoni meglio riusciti. La Spagna gioca in modo orizzontale e posizionale anche perché ha giocatori che sono esclusivamente pensati, per caratteristiche fisiche e tecniche, a questo tipo di calcio; l’unico giocatore “verticale” è infatti una riserva, il basco di origini ghanesi Nico Williams. Il calcio della Roja può considerarsi l’esatto opposto del calcio all’italiana: un fútbol di rigidi principi in fase di concepimento ma assai “liquido”, libero e poco schematico nella fase interpretativa. Al contrario il calcio italiano, inclusa la sua variante “eretica” sacchiana, è sempre stato un tipo calcio assai nebuloso e flessibile in quanto a principi di gioco ma assai preciso e curato nell’interpretazione tattica e schematica. Non è un caso che il calcio italiano, da quando ha iniziato a scimmiottare quello spagnolo, si è notevolmente mediocrizzato.

Questo paradosso sta alla base anche della recente crisi d’identità della Germania che per la prima volta manca per due volte consecutive la qualificazione agli ottavi di finale di un mondiale. Il calcio tedesco è da sempre un calcio idealistico e che ha sempre assorbito ed estremizzato concetti ed idee calcistiche sorte nei paesi confinanti (dal WM inglese al calcio posizionale di Guardiola passando per il Catenaccio italiano ed il Calcio Totale olandese). Se l’Italia calcistica ha sempre copiato male le mode degli altri paesi, la Germania lo ha sempre fatto in modo egregio ma sfiorando spesso il fanatismo ed il parossismo che si traduce i scarsa resa e, soprattutto, pochissima lungimiranza. Infatti il tiki token ed il gioco di posizione adottato dall’inizio della gestione Löw sembra aver prosciugato quello che è stata da sempre la grande specialità della casa tedesca: la produzione di grandi difensori ed attaccanti. Se si esclude il semisconosciuto Füllkrug la Germania non ha di fatto prime punte di peso mentre in difesa è stato adattato Kimmich, un mediano. Inoltre sulla trequarti manca inventiva e capacità di improvvisare calcio, altro vizio atavico del mondo calcistico che non è stato debellato nemmeno dalle nuove generazioni più multietniche. Hansi Flick sembra infatti guidare una squadra con il pilota automatico incorporato che esprime un calcio arioso quanto schematico e robotico, incapace di andare oltre l’ordinario.

Passando al Giappone, quella del Sol Levante è una delle nazioni dalla cultura più conservatrice e chiusa del pianeta e anche in ambito calcistico si può notare questa impostazione culturale: gli asiatici infatti giocano con undici samurai a difesa della propria area di rigore che poi ripartono alla velocità della luce con giocate essenziali e schematiche, che sembrano quasi fatte a computer.

Simile al Giappone per filosofia di gioco è una nazione  antipodica a quella giapponese, parliamo della la Costa Rica, che da buon protettorato statunitense, è una delle poche “isole felici” del Centro America. Il calcio praticato dai costaricensi, basato su un rigido 3-4-3 che si trasforma spesso in un abbottonatissimo 5-4-1, è infatti molto più collettivo e corale rispetto a quello dei paesi limitrofi più “caotici” come ad esempio il Messico.

Gruppo F: Croazia, Belgio, Marocco, Canada

La Croazia è una delle attuali nazionali che è riuscita a conservare nel modo più genuino la propria scuola calcistica. Le squadre croate, infatti, hanno sempre prediletto un calcio offensivo di marca mitteleuropea, votato alla posizione e al possesso palla. Due sono i ruoli fissi: il volante davanti alla difesa (Brozović, che funge la stessa funzione di Soldo nella squadra del terzo posto del 1998) e la punta di peso in attacco dove Kramarić, erede dei vari Šuker, Pršo, Mandžukić, è pronta ad aprire spazi per i sontuosi solisti che partono dal centro del campo (Modrić e Kovačić oggi, Boban e Prosinečki ieri) o dalle fasce con Perisić ricopre il ruolo che aveva ad esempio Stanić nel 1998.

Squadra né carne né pesce è parso invece il Belgio che sembra in bilico tra i colpi dei suoi numerosi solisti (i vari De Bruyne, Hazard, Lukaku) e la sua classica organizzazione tattica basata su difensivismo e rigorismo tattico. Anche un tecnico di scuola iberica come Roberto Martínez non sembra essere riuscito a dare un’anima calcistica definitiva ad un paese che di fatto non esiste. L’unica certezza è il portiere: Thibaut Courtois, che pure ha spaperato contro il Marocco, continua la grande tradizione di portieri belgi che va da Christian Piot passando per Jean Marie Pfaff, Michel Preud’homme e tanti altri validi numeri uno (Munaron, Bodart, Gillet).

Il Marocco, vincitore a sorpresa del girone, è la classica squadra del Nordafrica che segue i dettami dell’école française: una sola punta in attacco (En Nesyri), esterni veloci e ficcanti sulle fasce (Ziyech) e terzini arrembanti in difesa (Hakimi). Anche a livello di filosofia di gioco i marocchini hanno proposto un calcio molto frizzante che ha incartato due squadre individualmente superiori ma compassate come la Croazia ed il Belgio.

Il Canada, infine, nazione ancora meno calcistica degli U.S.A., ha sorpreso tutti per il suo gioco corale e per il suo 3-4-3 aggressivo e ficcante tutto ritmo e verticalizzazioni. Nonostante siano sempre usciti sconfitti i biancorossi hanno fatto una figura molto più egregia rispetto a quella mostrata nel 1986, anno della loro unica partecipazione alla fase finale di un mondiale. C.T. dei canadesi è uno sconosciuto inglese, John Herdman, che conferma un altro trend storico nella lunga storia del football britannico: i tecnici più progressisti ed “innovativi” (da Jimmy Hogan in avanti) hanno sempre operato principalmente all’estero mentre in patria sono sempre stati prevalenti manager conservatori ed ordinari.  

Marocco-Belgio, il successo simbolico che ha spianato agli africani la strada per gli ottavi

Gruppo G: Brasile, Svizzera, Serbia, Camerun

Dopo più di tre decenni di resultadismo europeo che hanno fruttato due mondiali (nel 1994 e nel 2002) e qualche cocente umiliazione di troppo, sotto la gestione di Adenor Leonardo Bacchi, in arte Tite, il Brasile sembra aver rispolverato la sua atavica anima brasiliana. La selezione verdeoro viene impostata in difesa con la tradizionale difesa bassa che fa affidamento a dei centrali che sono dei centrocampisti aggiunti (l’eterno Thiago Silva e Marquinhos); la grande novità è rappresentata dall’assetto del centrocampo e dell’attacco che ricorda molto da vicino il Brasile edizione 1970, schierato prima da João Saldanha e poi da Mario Zagallo con ben cinque numeri dieci (Jairzinho, Gérson, Tostão Pelé, Rivelino) e con un solo centrocampista di contenimento (Clodoaldo). Questa squadra non raggiunge il parossismo di quella formazione leggendaria anche se ci sono delle similitudini tra il ruolo di Coldoaldo e quello attuale di Casemiro oppure tra quello di Pelé e Neymar, entrambe seconde punte che possono anche arretrare a regista all’occorrenza. Resta il fatto che anche questo Brasile, riesce tranquillamente a far convivere Paquetá, Vinicius, Neymar, Raphinha e Richarlison. In Italia molti tecnici, che magari sulla carta si spacciano per offensivisti, diverrebbero matti a far coesistere giocatori con queste caratteristiche.

La Svizzera, paese che è sempre stato meta storica di immigrazione, più che una rappresentativa dei cantoni della Confederazione Elvetica sembra una selezione dei paesi balcanici vista la nutrita pattuglia di giocatori kosovari che vestono la casacca biancorossa. Da patria del Catenaccio (il famoso Verrou, inventato proprio dalla nazionale svizzera negli Anni Trenta) la Svizzera è diventata una sorta di mina vagante che abbina la storica buona organizzazione difensiva elvetica con la classica pazzia imprevedibile dei popoli balcanici. Ne sa qualcosa la nostra nazionale..

Rispetto agli odiatissimi vicini croati, la Serbia ha sempre rappresentato il volto più conservativo e pragmatico delle numerose anime dell’ex Jugoslavia. Le squadre serbe hanno infatti fatto affidamento a marcatori arcigni in difesa e ad una mediana di lottatori a supporto dei talenti che giocano di punta. Anche questa Nazionale allenata da una leggenda del calcio serbo come Pixie Stojković non fa eccezione. In difesa la Serbia è impostata a tre con due marcatori (Milenković  e Pavlović) ed un difensore che agisce qui da libero (Veljković). A centrocampo abbondano i picchiatori in mediana (Lukić e Gudelj) che devono supportare le due mezzali (Milinković-Savić e Tadić) che svariano dietro l’unica punta Zivković. Uno schieramento quindi molto più lineare e classico di quello croato.

Infine il Camerun, allenato da Rigobert Song, è l’ennesima nazionale africana a seguire i dettami del calcio francese: difesa solida, centrocampo folto e di qualità in cui il faro è Anguissa, attacco basato su rapidi contrattacchi palla a terra a servire la classica torre Choupo-Moting, abile anche a giocare di sponda con i compagni.

Breel Embolo, svizzero di Camerun, non esulta per il gol alla sua nazionale

Gruppo H: Portogallo, Uruguay, Corea del Sud, Ghana

Da eterna incompiuta del calcio europeo (assieme ai cugini spagnoli) nell’ultimo decennio il Portogallo ha saputo rinnovare la propria tradizione calcistica seguendo l’esempio di tecnici di successo come Carlos Queiroz (l’iniziatore negli Anni Novanta) e José Mourinho, colui che ha più “mediatizzato” il pragmatismo lusitano. Dal calcio barocco ed inconcludente il Portogallo è passato a un futebol fatto di garra e baricentro basso, nel quale difensori come Rúben Dias e Pepe sanno esaltarsi. Il saggio C.T. Fernando Santos, artefice del successo ad Euro 2016, è stato saggio a non voler rinunciare ai numerosi talenti offensivi che caratterizzano il suo undici  Nel settore d’attacco, infatti, i vari Cristiano Ronaldo, João Félix, Bruno Fernandes, Bernardo Silva giocano senza una posizione fissa come da consuetudine lusitana.

L’Uruguay è probabilmente la nazionale più conservatrice del pianeta: dal 1930 ad oggi la strategia delle “formiche” uruguaiane resta sempre quella dell’imbuto con le casacche celesti che inducono l’avversario a sbattere contro una sorta di muro posto a difesa dell’area di rigore. In difesa c’è sempre il “caudillo” a dirigere le operazioni: José Nasazzi nel 1930, Obdulio Varela nel 1950, oggi Diego Godín. A metà campo, dove prevalgono giocatori di garra e di sostanza come Federico Valverde, è dai tempi del Príncipe Francescoli manca un grande enganche (trequartista) capace di dettare i tempi. Nonostante ciò, la tattica contropiedista uruguagia continua ad allevare un’ottima batteria di attaccanti con Darwin Núñez che ha tutte le carte in regola per rinverdire i fasti degli eterni Cavani e Suárez, ancora presenti in Qatar da chiocce.

La Corea del Sud, nonostante l’antica rivalità con i vicini colonizzatori giapponesi, adotta anch’essa una filosofia di gioco molto simile a quella nipponica, di stampo prettamente funzionalista e militarista anche se con una maggiore vocazione al calcio d’iniziativa per la presenza di calciatori più talentuosi nel settore d’attacco come Son Heung-min, molto probabilmente il miglior calciatore asiatico di tutti i tempi. La lezione di un grande stratega come l’olandese Guus Hiddink, artefice del miracoloso quarto posto ai mondiali casalinghi del 2002, probabilmente viene ancora seguita dalle parti di Seoul.

Infine il Ghana di Otto Addo da ex colonia inglese adotta un approccio molto essenziale e minimalista di chiaro stampo britannico: 4-4-2, grande attenzione alla fase difensiva e alle transizioni verso le due punte Kudus e Iñaki Williams, fratello ghanese del basco Nico.

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