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Addio, “Bisteccone” Galeazzi

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A suo modo, è stato un vero e proprio decano del giornalismo sportivo. Popolare, colloquiale, a volte perfino comico. Al punto da far dimenticare che Giampiero Galeazzi è da sempre un grande competente di sport. Anzi, per molti aspetti è stato un traghettatore di pubblico verso discipline che non avevano e in qualche caso ancora non hanno grande audience. Molti sono convinti che se negli anni settanta il tennis e più tardi il canottaggio non avessero potuto usufruire della voce del “bisteccone” nazionale, le due discipline avrebbero faticato molto di più a entrare nelle grazie del pubblico televisivo. Galeazzi, giornalista che nasce atleta e che “da adulto” diventa uno dei volti più noti del piccolo schermo. Se ha un merito (e non ne ha soltanto uno), è quello di avere poco alla volta sdoganato la figura del giornalista sportivo da un’immagine seriosa e monodimensionale. Inventando uno stile leggero e un po’ da “pacca sulla spalla” ma sempre professionale, inappuntabile e disincantato. Sempre a modo suo. 

Galeazzi (a sinistra) nel doppio del Circolo Canottieri Roma con Spingardi, campioni italiani assoluti nel 1968

Un atleta, un giornalista

Giampiero Galeazzi nasce a Roma nel 1946. Da ragazzo è un promettente canoista: le lunghe leve e la possanza fisica (oltre 1 metro e 90 d’altezza) fanno di lui un potenziale esponente della nazionale italiana alle Olimpiadi. Fa parte del Circolo Canottieri Roma e partecipa alle selezioni per i Giochi Olimpici del 1968 a Città del Messico. Le aspettative vengono deluse, ma si apriranno nuove porte. Anni più tardi viene assunto in RAI. Naturalmente è un esperto di canottaggio ma, oltre a essere spigliato e ad avere una voce calda e coinvolgente, non bella in senso assoluto ma gutturale e ben identificata, ha competenze anche in molti altri sport. Qualità quest’ultima, che non tutti, anche con maggiore esperienza professionale, in quel momento potevano vantare. Inizia con la radio, poi pian piano si fa conoscere dal grande pubblico andando in video. Gli italiani associano per la prima volta la sua voce a un volto grazie a Dribbling, trasmissione di approfondimento sportivo che negli anni settanta va in onda il sabato pomeriggio sul Secondo canale nazionale. Da quel momento la popolarità cresce sempre più, tanto che Paolo Frajese lo porta con sé alla Domenica Sportiva. Un bel punto d’arrivo per un giornalista che a 30 anni sopperisce alla giovane età con abilità e grande capacità empatica. Nel reinventarsi comprende di essere l’inviato perfetto: preciso, puntuale, capace di gestire l’intervista in termini colloquiali senza mai scadere nel tono e nel linguaggio. Sa prestare la spalla all’intervistato rimanendo fermamente se stesso. In quegli anni le parole “Galeazzi” e “inviato” diventano praticamente sinonimo. È romano, ma quell’accento, sempre meno sotto controllo nel corso degli anni, non infastidisce neppure chi vorrebbe una RAI meno regionalista. Si professa tifoso della Lazio, ma nella Capitale non genera antipatie di fede calcistica.

Una voce, un volto

Con il tempo è sempre meno inviato e sempre più telecronista. Non è adatto al calcio in diretta, forse non ha i tempi per narrare il gioco del pallone in tempo reale. Ci vuole qualcosa che sappia enfatizzare le sue caratteristiche. Commentatore sì, telecronista no. Dunque, racconta in tv quello che conosce meglio: il tennis e il canottaggio. Nel corso degli anni settanta e anche oltre, non c’è tennis in RAI se non ci sono Guido Oddo e Giampiero Galeazzi. Sarà un caso, ma nelle percezioni generali anche quella disciplina cambia. È merito di Adriano Panatta che nel 1976 vince Roma e Roland Garros e anche della Nazionale che nello stesso anno fa sua la Coppa Davis, ma l’apparente spontaneità del giornalista romano, unita allo stile un po’ sabaudo ma mai freddo di Oddo, danno un contributo. Lo sport lo fanno i campioni, poi serve chi lo sappia raccontare. Altrimenti il pubblico si annoia e cambia canale. Hanno appena fatto irruzione gli anni ottanta. Quando ci sono le Olimpiadi, Galeazzi segue i trionfi dei remi italiani. In tutto partecipa a sei edizioni e ogni volta quella voce riesce a emozionare. Lo fa lui, ma sembra che potresti farlo anche tu, sebbene non sia vero. Far sembrare facile il difficile. Ecco il segreto.

La mitica telecronaca di Giampiero Galeazzi sul trionfo degli Abbagnale alle Olimpiadi del 1988

Una faccia, un inviato

Quando non si occupa di canottaggio è un inviato sui campi di calcio. Ormai le imprese di Panatta & co. appartengono al passato. La nuova generazione di tennisti italiani e gli scarsi risultati delle nostre racchette dirottano altrove l’interesse del grande pubblico. Anche in fatto di calcio Galeazzi mostra competenza settoriale e perfetta scelta di tempi. Ha abbandonato l’idea di essere un telecronista ma come inviato non ha uguali. Spesso l’inviato non ha il tempo di riflettere quando deve fare interviste al volo. La mente deve essere sempre aperta e la lingua sciolta. E senza essere cerimoniosi o ripetitivi. Per di più, quello che si fa, va fatto secondo quello stile che viene denominato intrattenimento. Galeazzi sa che deve arrivare all’obiettivo con la decima parte del tempo a disposizione di chi lo fa in studio. Lui non sbaglia un colpo, con un filo di protagonismo forse, ma senza mai mettere in secondo piano chi gli è di fronte. Altro grande segreto professionale. Un sottile equilibrio che non tutti i colleghi hanno presente, troppo in bilico fra l’essere cassa di risonanza di un comizio e il diventare prolunga di un microfono. Nel 1987 intervista Maradona e compagni durante i festeggiamenti per la conquista dello scudetto e si prende un gavettone in diretta televisiva. La scena gli fa guadagnare punti di simpatia generale, anche perché lui stesso è il primo a riderne. L’anno prima si era presentato sotto una veste diversa, svolgendo uno dei pochi servizi giornalistici non di carattere sportivo della sua carriera. È l’inviato RAI in occasione dello storico incontro fra Gorbaciov e Reagan a Reykjavik, Islanda, dove già si trovava per l’incontro di Coppa dei Campioni fra Valur e Juventus.

Non solo canottaggio: Galeazzi inviato sul calcio, qui con il campione azzurro Roberto Baggio

Un personaggio, una nuova fase

Negli anni novanta la fama e la riconoscibilità lo hanno reso un personaggio. Ha perso quella patina un po’ istituzionale in favore di una vena più nazionalpopolare. La Gialappa’s Band, che conduce il programma “Mai dire gol”, lo ha nel frattempo ribattezzato “bisteccone” e il soprannome, in verità, gli sta a pennello. Fa cose nuove, senza ripudiare il suo background. Nel 1994 Mara Venier lo include nel cast di Domenica in. Qui “bisteccone” viene spesso coinvolto in gag che ne mettono in risalto una vena comica, a volte sul filo del trash, che il pubblico neppure sospettava. Sempre all’interno di Domenica in, ritrovata come d’incanto la giusta compostezza, presenta 90° minuto, trasmissione nella quale farà estemporanee incursioni anche dopo aver ceduto lo scettro. Una volta in pensione, Giampiero Galeazzi si è reinventato scrittore, facendo uscire un libro che racconta aneddoti sulla sua carriera di inviato. Poi, di lui si sono quasi perse le tracce. È sparito dalla tv, per problemi di salute. In ogni caso, in questi anni si è sentita la mancanza di un personaggio come lui, scanzonato ma professionale, ironico ma rigoroso. Un suo eventuale ritorno sul piccolo schermo, magari in buona salute, sarebbe stato una graditissima ricomparsa. Forse anche per chi ne ha sottovalutato le qualità di giornalista e di inviato per parecchio tempo. Facile celebrarlo adesso che non c’è più.

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