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Utilità e bellezza: due concetti che nel calcio vanno di pari passo

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Immagine di copertina: Pelé, l’esempio più alto di utilità mescolata alla bellezza, sovrasta Burgnich nella finale di Messico ’70.

Lo diceva l’avvocato Agnelli di tale Zinédine Zidane, a mio parere a torto, vista la vagonata di giocate determinanti che dimorano nel carniere dell’asso franco-algerino, ma non sono qui per parlare di Zizou, bensì per esplorare una frase che è al tempo stesso denigratoria (non sei utile) e celebrativa (però sei bello).

Sono qui per andare a fondo e scoprire se una simile definizione, ambigua e dotata di più di una lama, possiede un qualche fondamento, oppure se è semplicemente fuorviante o comunque poco adatta a descrivere il funzionamento di uno sport come il calcio.

Gianni Agnelli a colloquio con Inzaghi e Zidane ai tempi della Juventus. Il francese fu definito dall’Avvocato “più bello che utile”. Ma forse, guardando la carriera, è una definizione decisamente ingenerosa per l’asso francese [foto LA PRESSE]

Come spesso accade, la frase “più bello che utile” dà per scontati una serie di presupposti, o se preferite di assiomi, che purtroppo non lo sono affatto. Presuppone che esista una definizione univoca di bellezza e di utilità anche solo all’interno di un orizzonte concettualmente ristretto come quello di uno sport, quando mi pare evidente che così non è.

Utilità: Funzionalità, proficuità in vista di determinati fini: l’u. del denaro; la grande u. degli studi; con senso più concreto, vantaggio, profitto.

Benissimo, il senso della parola è chiaro e intuitivo.

Come ne facciamo però un uso corretto quando parliamo di calcio? In cosa consiste l’utilità di un giocatore? In un vantaggio, in un profitto, così ci spiega in dizionario in termini così generici da rasentare la trasparenza. Se vogliamo tradurre il concetto in termini più diretti, è utile il giocatore che ti avvicina all’ottenimento dell’obiettivo finale, ovvero del successo.

Ma è possibile individuare in maniera chiara e univoca se e come un giocatore possa svolgere questa funzione, specie all’interno di un collettivo, dei suoi meccanismi e automatismi, di quell’arazzo di variabili infinite che è una partita?

E poi, se badiamo al risultato e quindi al gol, l’unico vero giocatore utile è quello che segna, o almeno che segna il gol decisivo – perché un gol che non decide nulla, a conti fatti, non è utile?

Mi pare francamente una lettura semplicistica e molto riduttiva, specie quando ci muoviamo all’interno di territori non statistici. Il calcio non è uno sport che può essere esaminato facendo leva esclusivamente sui numeri; è chiaro che le cifre hanno un loro peso, ma si tratta di un peso che non è lontanamente paragonabile a quello che rivestono nel basket.

Michael Jordan è grande anche e soprattutto grazie ai suoi numeri da marziano. Chiaro che anche la pallacanestro meriti analisi più complesse di quelle basate sulla mera contabilità (non ogni canestro ha lo stesso peso), che valorizzino tutte le sue sfumature, ma io resto dell’idea che i numeri sul parquet svolgano una funzione dirimente.

Air ha la media punti per gara più alta dell’intera storia NBA; e questo dato viene spesso trasformato in un’argomentazione, se non decisiva, quantomeno molto pesante negli annosi e accesi dibatti sul GOAT che coinvolgono gli appassionati di pallacanestro (sotto questo profilo, tutto il mondo è paese).

Nel calcio un ragionamento analogo non sarebbe sostenibile: la media gol per partita non può essere un fattore determinante e neppure di importanza primaria nella valutazione di un giocatore e della sua utilità. Giuseppe Signori segnava più reti di George Weah e di Roberto Baggio, e parliamo di tre attaccanti chiamati a svolgere funzioni simili, che dovremmo quindi valutare con parametri anche tecnici del tutto similari; eppure, ne sono certo, tutti anteponiamo il Divin Codino e anche King George al pur bravissimo Beppegol. Ciro Immobile vede la porta con maggiore continuità rispetto a Gianluca Vialli, ma credo che tutti percepiscano come i due giocatori si collochino su due piani diversi, e che il buon Gianluca si accomoda su quello più alto.

Il metodo analitico e statistico non vale neppure per i difensori, ovvero quando si esula dalla mera conta dei gol: il miglior difensore del campionato non sarà necessariamente (anzi, non lo sarà quasi mai) colui che ha realizzato più tackle, più colpi di testa o il cui avversario diretto ha segnato meno reti. Un’impostazione simile rivela tutta la propria fragilità e inadeguatezza nella misura in cui ci porterebbe ad anteporre difensori solo buoni ad autentici colossi della categoria e nella misura in cui non ci consente mai di valutare con precisione la natura della singola giocata o del singolo intervento ma li parifica tutti, come se non esistessero sfumature e spesso differenze sostanziali tra una giocata e l’altra.

Se il calcio non è materia per statistici, se non entro determinati limiti e per lo più quando si vogliono definire le abilità ad ampio raggio di un singolo giocatore, significa che la sua analisi (del calcio) richiede qualcosa di diverso, che oltrepassi i numeri e la loro funzione per collocarsi in un’altra dimensione, al tempo stesso più astratta ma anche più stimolante e complessa, ovvero quella della qualità.

In altri termini, il calcio ti obbliga a interpretare i numeri e a valorizzarli in una prospettiva diversa da quella puramente contabile, una prospettiva che non può prescindere dalla natura delle singole giocate contabilizzate – e forse sterilizzate – dalla statistica. Il calcio consiste in una lunghissima serie di giocate, episodi (voce alla quale rubricare i rimpalli, gli infortuni, gli errori individuali o di squadra etc..), coreografie con e senza palla, colpi di genio etc..; capita spesso, anzi quasi sempre, che siano uno o due episodi a risultare determinanti e a cambiare la faccia della storia, a staccarsi anche per pura coincidenza da quel marasma di piccoli eventi che è una partita. Qualificare come utile solo il protagonista di questi episodi rischia di essere, più che riduttivo, offensivo per il calcio e per la sua bellezza.

Arrivo al dunque: io ritengo che bellezza e utilità non sia contrapposte ma che coesistano e contribuiscano alla definizione di un giocatore e anche di una squadra, spesso sovrapponendosi fino a perdere la propria identità, cosicché la giocata bella è anche una giocata utile e viceversa.

Ci sono due ordini di motivi per cui ritengo che la contrapposizione teorizzata inconsapevolmente dall’avvocato Agnelli sia un’aporia, quando si parla di calcio, e che meriti pertanto di essere archiviata.

In primo luogo, se si parla dello sport qualitativo per eccellenza, del gioco che le statistiche non possono fotografare se non in minima parte e solo nella sua dimensione più prosaica, la giocata utile è la giocata bella.

L’utilità è la bellezza.

Il giocatore che si distingue dagli altri non lo fa tanto sul piano numerico, non solo almeno, ma proprio sul piano qualitativo, ovvero anche sul piano della bellezza; che poi tale bellezza non sempre possa tradursi in un risultato immediato, ovvero nel gol e nella vittoria, è la diretta conseguenza della natura del calcio, del suo dipanarsi in centinaia di microeventi, solo pochissimi dei quali, e a volte in modo fortuito, sono decisivi per il risultato finale.

La giocata di qualità, in un simile coacervo di fatti e circostanze imprevedibili, è tuttavia utile nella misura in cui rende più probabile il conseguimento del fine ultimo, ovvero della vittoria.

Questa regola, spesso sottovalutata, ha un peso decisivo nell’esaminare quei giocatori che a istinto percepiamo come di importanza cardinale e che ciononostante, sul piano numerico, non sempre spiccano, in quanto la loro bravura consiste più che altro nell’agevolare tutto il resto della squadra e nell’avvicinarla alla traduzione pratica (nel gol) della bellezza. Il grande giocatore è sia bello che utile nella misura in cui la qualità/bellezza delle sue giocate si traduce in un vantaggio per i compagni e quindi per la squadra, vantaggio che può essere anche mediato e più sottile da percepire rispetto al pallone spinto in fondo alla porta (quante volte una giocata di qualità apre le porte a un gol, a un’azione pericolosa, o magari contribuisce a sfiancare gli avversari, a togliere loro sicurezza, a ribaltare le sorti psicologiche di un incontro? Quante volte sentiamo dire che il tale giocatore migliora i compagni e non comprendiamo quanto sia bella la sua utilità?).

In secondo luogo, la bellezza può essere e mio parere deve essere uno degli scopi ultimi del calcio, o almeno lo è per chi apprezza il calcio in quanto tale e non solo nell’ottica del festeggiamento a fine gara e/o a fine stagione.

Negli occhi degli appassionati rimangono impresse le massime imprese estetiche, spesso ancor più dei risultati, e non si tratta di un vezzo narcisistico né della subdola e patetica rivincita degli incompiuti sui vincenti, degli esteti sui pratici, ma della naturale conseguenza dell’essenza qualitativa del calcio, di un discorso che si lega alla sua ontologia più profonda.

Se apprezziamo tuttora l’Olanda di Johan Cruijff (la cui sconfitta a Monaco di Baviera, secondo un amico e scrittore di vaglia, è la massima tragedia della storia dello sport professionistico, per mille ragioni anche e soprattutto culturali: a perdere fu una fetta importante del mondo, in una sorta di crudele presagio del triste destino di molti ideali rivoluzionari e dei loro portavoce estetici) e fatichiamo invece a trovare, sulla mappa dove abbiamo posizionato le squadre più forti di ogni epoca, la Germania Ovest che conquista l’Inghilterra nel 1996 o la Grecia che, rispolverando un calcio antico, fa piangere un giovanissimo Cristiano Ronaldo nel 2004, è perché l’Olanda dei primi anni ’70 è una squadra migliore e più utile delle altre due.

La sua utilità si misura anche nella sua bellezza, ovvero nella sua qualità, in tutto ciò che non può ridursi a mera statistica, e su quel piano il divario con le altre due formazioni – che pure hanno vinto più di lei – diventa talmente evidente da rendere superflua ogni spiegazione.

Non voglio mortificare l’importanza del risultato (se non contasse nulla, potremmo andare tutti al circo e traformare la competizione in un’esibizione), ma solo esaltarlo nella prospettiva della qualità (da intendersi in molti modi diversi e non solo sul piano squisitamente tecnico), svincolando il giudizio più articolato sullo sport che più amiamo dalla mera evidenza del risultato, che ha spesso il vizio di dipendere dal caso fortuito, da una serie di circostanze che trasformano uno dei mille microeventi della gara in un singolo momento determinante.

E, ripeto, lo sto facendo nell’ottica di spiegare alcune tra le convinzioni e le argomentazioni che spesso utilizziamo quando confrontiamo tra di loro squadre e giocatori che hanno lasciato un segno sia sul piano del gioco che sull’almanacco.

In fin dei conti, il Milan guidato da Arrigo Sacchi ha portato a casa solo due Coppe dei Campioni, mentre il Bayern Monaco degli anni ’70 ne ha vinte tre e il Liverpool, a cavallo tra anni ’70 e anni ’80, addirittura quattro. Eppure siamo tutti convinti che la squadra di Gullit e Van Basten fosse superiore e che comunque occupi una posizione diversa e più importante nel panorama calcistico mondiale rispetto alle altre due, in quanto ha riempito gli occhi degli appassionati, li ha portati a trascendere il tifo e le questioni spicciole, accompagnandoli in una dimensione diversa. Il Brasile del 1970, con la sua perfezione metafisica, le sue slogature jazz, il suo funambolismo eretico e al tempo stesso di un’efficacia disarmante, ha vinto un mondiale, ovvero la stessa coppa che hanno alzato al cielo (con tutto il rispetto) l’Italia di Lippi e l’Argentina di Maradona.

Eppure ai miei occhi il solco che separa queste formazioni è profondo come quello che divide Bill Hicks (ovvero qualcuno che ha pensato e realizzato qualcosa di diverso) da un qualsiasi bravissimo comico che riempie i palazzetti: anche in questo caso, a essere decisivo – che ne siamo consapevoli o meno – è il discorso sulla qualità, che assorbe quello sulla bellezza e che si traduce anche in utilità, relegando i numeri in secondo piano.

Le mie argomentazioni non vogliono essere una civetteria né una forma di onanismo intellettuale, ma illustrare semplicemente perché, a mio parere, valutazioni come quella dell’avvocato non reggano a un’analisi più approfondita, e in realtà proprio il loro oggetto (Zizou) è la smentita vivente della contrapposizione ideata da Agnelli. Sbagliando completamente bersaglio, in altri termini, l’avvocato ha palesato anche la fragilità della sua teoria.

Sto parlando da esteta, me ne rendo conto, e del resto dietro e oltre il reticolato dell’argomentazione scorre la linfa vitale della passione, che in quanto tale ha spinte in larga misura irrazionali che noi in qualche modo giustifichiamo a posteriori.

Ma ritengo di essere un esteta utile.

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