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Allenatori idealisti o pragmatici? Quando calcio e filosofia si mescolano

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Immagine di copertina: Guardiola e Mourinho, due tecnici agli antipodi come mentalità

Herbert Marcuse, nel celebre “L’uomo a una dimensione“, bacchetta – parliamo di filosofia e di storia – tanto l’astrattismo quanto il puro pragmatismo. In primis, focalizza l’attenzione sulla logica formale che affonda le radici nel pensiero di Aristotele e che, con il passare dei secoli, si è trasformata a suo dire in un gioco di specchi che rifiuta sdegnosamente l’attrito, il confronto con gli spigoli e le asperità del mondo nella sua materialità.

D’altra parte, osserva acutamente Marcuse, la pura e semplice osservazione della realtà, l’adesione al mero dato di fatto priva di qualsiasi filtro ermeneutico non può che tradursi in un’adesione alle convenzioni, a ciò che appare evidente e inconfutabile e che spesso, invece, non lo è; i fatti per come li percepiamo ci dicono che la Terra è piatta e ferma e che è il Sole a muoversi, e se nessuno fosse mai andato oltre questa lettura immediata, a suo modo certamente pratica, la società e il pensiero non sarebbero mai progrediti.

Credo che l’intuzione di Marcuse sia valida anche nel nostro più prosaico mondo del calcio e che possa aiutarci a comprendere la fallacia fuorviante della distinzione, tanto di moda tra tifosi, giornalisti, appassionati tra allenatori “idealisti” e allenatori “pragmatici”.

Arrivo subito al sodo: io credo che un allenatore bravo debba necessariamente essere entrambe le cose e che potenzialmente controproducenti siano invece sia la metafisica impalpabilità delle idee che la pura e semplice immediatezza dei cosiddetti elementi fattuali.

L’idealismo tende delle trappole a cui è difficile sfuggire, proprio perché rifiuta l’attrito e quindi la dimensione dialettica che – Hegel e discepoli insegnano – è invece il motore della storia. L’idea di per sé è perfetta e non può essere messa in discussione, se galleggia in solitudine nel mondo del pensiero astratto: ogni confutazione, anche violenta, non può entrare a far parte di questo mondo e verrà quindi liquidata con sdegno, come un errore della storia, come un inciampo dovuto all’interferenza di fattori esterni e volgari, la cui statura non consente loro di rivendicare la perfezione vitrea del pensiero. Mi viene un nome su tutti: il tetro ginnasiarca noto come Zeman.

Prescindo in questa sede da ogni considerazione circa il suo effettivo valore come tecnico e come insegnante di calcio; per quello che vale, ho grande stima dello Zeman docente e un po’ meno stima dello Zeman allenatore, credo che abbia regalato un grandissimo calcio e ottimi risultati negli anni ’90 e che sia però poi diventato la caricatura di se stesso, negli anni seguenti, salve poche felici eccezioni.

Zdenek Zeman

Zeman abita un altro pianeta, all’interno del quale il concetto domina e surclassa ogni antagonista e piega il mondo alle proprie esigenze; un pianeta che, probabilmente, esiste solo dentro la sua testa. Il calcio, secondo la sua rigorosa concezione, funziona solo in un determinato modo, e il resto del mondo deve adattarsi; se non lo fa, è lui (il mondo) a essere in errore, a infangare ciò che di per sé sarebbe metafisicamente inattaccabile.

Ricordo Scoglio affermare, intorno all’anno 2000, che i giocatori non contano nulla, perché sono le idee che cambiano il corso della Storia, anche se parliamo di quella dello sport. Siamo persino oltre l’intransigenza feroce del ginnasiarca, perché Scoglio trasforma un gioco in cui 22 ragazzi si rincorrono all’interno di un rettangolo verde (la quintessenza della materialità) in una sorta di disputa filosofica, nell’universo della logica formale in cui a prevalere è il sillogismo che non ammette sbavature, destinato a fare piazza pulita di ogni paralogismo e delle sue contraddizioni intrinseche. Io vincerò perché le mie idee sono migliori delle tue e la disputa si giocherà tutta sul piano del pensiero astratto.

I limiti di un approccio simile li rivela ogni giorno proprio il rettangolo di gioco: le idee sono astrazioni di carattere generale che si sviluppano esaminando il reale e che con questo devono sempre incrociare le armi, in un corpo a corpo dove non ci sono vincitori né vinti, in termini assoluti, ma solo una gigantesca gamma di possibilità dialettiche. In caso contrario, ovvero se le idee rifiutano di combattere, trincerate dietro la propria superiorità ontologica e persino morale, vengono asfaltate a tavolino. Perdono in partenza. Zeman (perdonerete la semplificazione) non è mai cresciuto perché ha rifiutato a priori la comparazione, diventando così schiavo della propria perfezione originaria, condannandosi a recitare la stessa pantomima in eterno.

D’altra parte, i limiti dell’idealismo non devono nascondere gli altrettanto evidenti limiti del cosiddetto pragmatismo, che un’analisi un minimo approfondita è sempre in grado di smascherare. Il pratico, secondo la vulgata comune, si limita a gestire e a mettere in campo i giocatori nel rispetto delle loro qualità e necessità, e così (sostiene sempre la fronda dei pratici) ottiene il meglio. Anche in questo caso si sta però semplificando la realtà, e non si tiene conto di un dato essenziale: i fatti e nudi e crudi spesso mentono. La Terra non è piatta. Noi siamo fatti di microrganismi e ci sono microrganismi in grado di ucciderci: se l’avessero saputo nel Medioevo, l’epidemia di peste sarebbe stata arginata molto prima. Ma l’evidenza immediata, condizionata e anzi castrata dalle barriere colossali poste dalle nostre possibilità percettive, aveva tratto decine di milioni di persone in inganno, condannandole a un tragico epilogo.

Un approccio che tende a volare così basso e a non interrogarsi mai sui dati che la realtà mette a sua disposizione (e interrogarsi è tutto: ogni persona sapeva che una mela cade, solo Newton però si interroga sul perché lo faccia), a esaminarli, risulterà castrante tanto quanto un approccio che della realtà si dimentica completamente, perché trascura un fattore chiave: la capacità dell’uomo di modificare la realtà, di incidere sui fatti.

Traduco in termini pratici: un allenatore non dovrebbe mai dimenticarsi del suo potere: può lavorare sul giocatore, sulla squadra, sul modo in cui è organizzata. I giocatori non sono entità stabili e immodificabili e sta al loro coach ricavare il meglio da ciò che hanno nel carniere. La loro posizione in campo e il modo in cui interagiscono sono a loro volta qualcosa che muta continuamente e sul quale è possibile lavorare. Ecco perché un Cesare Maldini, persona per cui nutro enorme stima, alla fine diventa schiavo della propria semplicità, esattamente come Scoglio diventa schiavo della propria presunzione e delle proprie aspirazioni utopiche.

Cesare Maldini

Cesare si limita a gestire quello che ha, senza mai interrogarsi su come sia possibile valorizzarlo e migliorarlo. Questo approccio si traduce in un calcio retrivo e privo di sbocchi e di idee proprio perché il suo timoniere ha bandito dalla propria quotidianità, legata all’immediata percezione dei fatti, la possibilità stessa dell’idea, la sua esistenza (perdonate la tautologia). Se la storia fosse un avvicendarsi di Cesare Maldini e simili, il calcio sarebbe ancora fermo al 1800, fatta salva l’evoluzione della tecnica e della preparazione atletica.

In sintesi, io credo che i grandi tecnici debbano trascendere i fatti ma non prescindere da loro. Esattamente come i grandi filosofi e pensatori esaminano la realtà e però ne desumono e ricavano idee che non sono di percezione immediata, che si allontanano dai luoghi comuni e dal modo più semplicistico di vedere le cose. Karl Marx è uno storico che poggia sui fatti la propria intuizione fondamentale, il materialismo dialettico (definizione geniale che calza come un guanto anche lo zeitgeist di certe scuole di pensiero in ambito sportivo); Michel Foucault costruisce un complesso discorso teorico sul potere proprio analizzando la società e le sue strutture, dalle quali non può prescindere ma alle quali non può aderire in termini acritici.

Anche in materia sportiva, i grandi mutamenti sono sempre proteiformi e possiedono quindi un’anima che è tanto legata al mondo delle astrazioni quando ai fatti nudi e puri. Il grande allenatore è un grande dialettico.

Faccio qualche esempio: Cruijff, bollato dai detrattori come il principe degli idealisti, immagina la sua difesa a tre e il 3-4-3 che ne deriva come contromisura all’atteggiamento classico delle squadre olandesi, che schierano due punte. Johann ipotizza che per arginare gli attacchi avversari siano sufficienti tre uomini e che questo liberi energie, fantasia e densità nel reparto cruciale. Idea geniale e semplice che scaturisce da un’esigenza pratica e da una lettura non convenzionale della realtà (non si fosse interrogato sui fatti, Cruijff avrebbe sempre schierato la difesa come la schieravano tutti gli altri tecnici).

Johan Cruijff e il suo allievo Pep Guardiola

Ancelotti allestisce il suo capolavoro – il Milan degli anni 2000 – valorizzando l’intuizione di Mazzone, che arretra Pirlo davanti alla difesa esaltandone così le qualità; quindi, non potendo e non volendo rinunciare all’enorme bagaglio tecnico di mezzali e trequartisti, decide di farli coesistere e riesce nell’impresa, anche perché sa di poter contare sull’energia inesauribile e sulla tempra di Gennaro Gattuso. Di nuovo: grande intuito che si sposa alle caratteristiche dei giocatori e alle esigenze del campo.

Guardiola, che pure in alcuni momenti si è condannato da solo a causa di un eccesso di narcisismo, dà vita alla più grande squadra dell’era moderna con alcune mosse geniali: anziché puntare tutto su uno tra Xavi e Iniesta, memore della lezione del CT della Spagna decide di farli convivere e di affidare a entrambi le redini della squadra, intuendo che nonostante pregi (tecnica sublime, visione di gioco, personalità) e difetti (scarsa tempra agonistica, mediocre attitudine difensiva) simili, i due cervelli insieme possono assicurare il controllo pieno della sfera centrale del campo. Il Messi centravanti di manovra è un’altra idea che rovescia la storia e che Guardiola impone contro ogni dogma imperante, che vede nel centravanti solo ed esclusivamente un colosso in grado di fare a sportellate (gli anni ’90 e i primi 2000 questo raccontano).

Il primo Arrigo Sacchi, quello non ancora in preda alle sue distonie nervose, ha meriti analoghi: è facile riscontrare a posteriori che quel Milan era un dream team; lo era, ma non sarebbe stato l’unico dream team che fallisce l’appuntamento con la Storia. Arrigo invece aggredisce la storia e la piega alle proprie idee, plasmandole ancora una volta sui fatti. Chi ha assistito alle sublimi lezioni di calcio inferte a un Real individualmente stellare non può che strabuzzare gli occhi ancora oggi, così come davanti ai sincronismi inediti ammirati in diverse occasioni in campionato: Sacchi, remando peraltro controcorrente, ha vinto nella misura in cui ha consentito alle proprie idee di trasformare la realtà e a quest’ultima di diventare docile.

Mourinho porta a termine l’impresa della vita – il famoso Triplete interista – con alcune intuizioni geniali, che ne confermano la statura di pensatore e non solo di motivatore: Eto’o relegato sulla fascia e che pure dà un contributo essenziale, Pandev idem, Sneijder che si trasforma in Platini, una squadra capace di giocare in trincea così come di mettere al muro gli avversari, la purezza del calcio transizionale elevata all’ennesima potenza. Mourinho quindi, a dispetto di ciò che recita l’adagio dominante, non è un pratico nel senso più triviale del termine, perché non si limita a una conduzione basica e lineare, ma inventa soluzioni, sviluppa e applica ciò che il suo cervello gli suggerisce.

Potrei proseguire a lungo, con gli esempi illuminanti di tecnici titanici come Otto Rehhagel, Brian Clough o Ernst Happel, ma spero che il concetto sia chiaro: quella tra teorici e pratici è una contrapposizione a mio parere fittizia e un po’ semplicistica, perché i grandi allenatori (che propendano per un calcio proattivo o reattivo, più tecnico o più votato all’agonismo) sono sempre entrambe le cose, sono dialettici.

(contributi di Francesco detto Ciccio)

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