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Qatar 2022, il “Mondiale della discordia”

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Il conto alla rovescia per il fischio di inizio dei Mondiali 2022 è iniziato e le varie nazionali sono state impegnate di recente su un duplice fronte: quello puramente sportivo, con i match dei gironi di qualificazione e quello sociale, con la protesta portata in campo da alcune squadre che hanno voluto spostare l’attenzione del mondo dal calcio giocato a quanto sta accadendo in Qatar.

È la prima volta che la più importante competizione di calcio viene organizzata in un Paese arabo e per questo motivo nell’Emirato si sta lavorando a pieno ritmo per costruire infrastrutture e impianti degni di ospitare la fase finale del Mondiale.

Stadio Al Wakrah, Watar. Ospiterà gli ottavi di finale

Perché le Nazionali stanno protestando?

Sono oltre 6.500 gli operai che hanno perso la vita durante i lavori di costruzione di stadi e infrastrutture in Qatar. È quanto emerge da un’inchiesta del Guardian, in collaborazione con la fondazione Humanity United, che evidenzia come la maggior parte delle vittime siano lavoratori immigrati irregolari, (provenienti soprattutto da  India, Bangladesh, Nepal, Sri Lanka, Kenya e Filippine) trattati come dei veri e propri schiavi e costretti a lavorare giorno e notte in condizioni a dir poco disumane.

Un gruppo di operai durante una pausa dal lavoro in Qatar

A quelli già citati, si aggiungono gli 824 morti in più segnalati dall’Ambasciata del Pakistan a Doha. La maggior parte dei decessi avviene per cause naturali, in special modo insufficienza cardiaca o respiratoria acuta. Diversi sono invece causati da stress termico: un rapporto dell’Onu stabilisce infatti che per almeno 4 mesi all’anno i lavoratori faticano sotto le temperature del Qatar (che oscillano intorno ai 40° d’estate, arrivando fino ai 48° quando ci sono le correnti desertiche). Tutti morti su cui il Governo qatariota tace, nonostante la richiesta insistente delle famiglie dei deceduti di effettuare autopsie sulle salme dei loro cari. Richieste che vengono completamente ignorate e rispedite al mittente.

L’inchiesta del Guardian non è passata inosservata: la protesta è nata dall’iniziativa del Tromso, club di punta del campionato norvegese che, attraverso un comunicato ufficiale, ha chiesto di boicottare i Mondiali ed è stata appoggiata da altri sei club, tra cui il Rosenborg. La Federazione Norvegese ha sostenuto la protesta dei club, autorizzando la nazionale a scendere in campo indossando maglie con la scritta “Human Rights on & off the Pitch” (“Diritti umani dentro e fuori il campo”) con l’intento di mettere pressione sul governo di Doha e sulle tante ombre che lo stanno attraversando.

Toni Kroos ha protestato contro l’organizzazione dei Mondiali in Qatar

Ai norvegesi han fatto seguito anche l’Olanda e la Germania e, proprio tra le fila tedesche, si è espresso Toni Kroos, che in conferenza stampa ha dichiarato: «Non condivido l’organizzazione del Mondiale al Qatar, anche se è una scelta di ormai dieci anni fa. Questo per numerosi motivi che vanno dalle condizioni di lavoro in cui operano le persone in quel paese, al fatto che l’omosessualità è un reato perseguito, la mancanza di cibo e acqua per i migranti e tanti altri. Operai, immigrati, che lavorano senza pause, anche a 50°. Senza cibo, né acqua, qualcosa di assurdo soprattutto a certe temperature. La sicurezza sul lavoro non è tutelata in alcun modo. Non c’è alcuna assistenza medica e spesso i lavoratori sono stati anche oggetto di violenze. Tutte cose francamente inaccettabili. In generale, ci sono condizioni di lavoro pessime per gli operai, indipendentemente dal fatto che si tratti di costruire stadi di calcio o altro. L’unica speranza è che parlarne oggi faccia in modo che in futuro chi organizza la Coppa del Mondo prenda in esame questi problemi e la situazione possa migliorare».

E nonostante il regolamento Fifa non preveda eventi di natura diversa da quella sportiva, è ormai certo che per la Norvegia non ci saranno sanzioni, anzi dal comitato esecutivo fan sapere che «la FIFA crede nella libertà d’espressione, e nel potere del calcio come forza per il bene». Vedremo come andrà a finire anche perché la nazionale norvegese ha fatto sapere che intende andare avanti con le proteste.

Sport e Protesta sociale vanno a braccetto da sempre: le manifestazioni sportive sono state spesso l’occasione perfetta per manifestare dissenso o semplicemente per dare a una particolare protesta visibilità e risalto, complice anche l’ampio bacino d’utenza al quale le stesse si rivolgono. Tornando indietro negli anni, l’ultimo caso emblematico risale al giugno 2018 quando la nazionale argentina ha annullato l’amichevole contro Israele, in programma a Gerusalemme.

A chiedere l’annullamento della gara era già stato il presidente della Federcalcio Palestinese Jibrib Rajoub facendo notare che, se l’Albiceleste fosse scesa in campo, milioni di fan palestinesi e arabi avrebbero bruciato la maglia di Lionel Messi. Diversi gruppi di attivisti si erano quindi presentati alla sessione di allenamento dell’Argentina a Barcellona con la maglia della Pulce sporca di sangue. La selezione sudamericana non ha quindi potuto fare altro che annullare la gara.

Un manifesto mette in guardia gli Argentini

Polveriera Balcani: quando i venti di guerra soffiano sui campi di calcio

L’ex Jugoslavia ha alle spalle una storia travagliata tra dittature, divisioni e guerre civili, ed è proprio nei balcani che la politica ha messo radici profonde e salde nello sport. Solo per citare un esempio, nel 1980 durante Hajduk Spalato – Stella Rossa l’annuncio della morte di Tito, artefice dell’unificazione della Jugoslavia, non solo interrompe bruscamente la partita, ma il gioco viene sostituito da scene di isteria e disperazione collettiva. Quello che accade fuori dal campo dopo la morte del dittatore slavo è storia, con i paesi balcanici dilaniati da una guerra civile che definire feroce è un eufemismo. Guerra che con il senno di poi, si può dire fosse già iniziata sul campo. È il 1990 e la Jugoslavia sta attraversando un periodo politico particolare che sta vedendo l’equilibrio del Paese, già di per sé traballante, vacillare pericolosamente. Soffiano forti e minacciosi i venti di guerra e questo viene confermato a Zagabria durante la partita tra Dinamo e Stella Rossa Belgrado due squadre promettenti e piene di talento. Tra le fila croate giocano Zvonimir Boban e Davor Šuker, mentre nella Stella Rossa  giocano il montenegrino Dejan Savićević, il serbo Dragan Stojković e il serbo-croato Robert Prosinečki. Durante la partita, sugli spalti scoppia una vera e propria guerriglia guidata da veri e propri criminali (che faranno parte degli eserciti di Croazia e Serbia e che si macchieranno di crimini feroci) che conterà, a fine gara, 138 feriti, con Boban che viene alle mani con un poliziotto per difendere un tifoso, gesto che gli costerà una squalifica e l’impossibilità di giocare ai Mondiali.

Zvonimir Boban aggredisce un poliziotto

Il resto è storia, ma se il 1990 segna di fatto idealmente l’inizio della guerra negli stadi, si può tranquillamente dire che il 1999 ne segna la chiusura, quando a Belgrado si fronteggiano la Serbia (che all’epoca comprendeva ancora il Montenegro) e la Croazia. Quest’ultima in campo viene sommersa di fischi.

È nel secondo tempo però che la partita viene interrotta: le luci si spengono e fra le tribune non si vede altro se non i puntatori laser dei fucili di precisione dei cecchini: una protesta dei nazionalisti serbi contro l’allora presidente Slobodan Milošević, colpevole di aver causato i bombardamenti NATO a seguito della guerra in Kosovo.

Quell’anno vede inoltre qualificarsi la Serbia a Euro 2000 e sancisce la chiusura simbolica di un decennio che ha completamente cambiato la politica e la geofisica dei paesi balcanici. E nonostante ora siano in pace, si ha continuamente la sensazione che una partita di calcio nei Balcani non sarà mai solo una partita di calcio, ma anzi porterà sempre a galla le rivalità storiche tra le diverse nazioni. 

1999: Stanković e Boban a fine partita

George Floyd: le proteste fanno il giro del mondo

Di recente, più precisamente nel 2020, il mondo intero ha fatto eco agli Stati Uniti e alle proteste che hanno incendiato le strade americane in seguito alla morte di George Floyd a Minneapolis, per mano di un poliziotto. Ovunque e in tutti gli sport, le manifestazioni sono state la cassa di risonanza del movimento “Black Lives Matter”: caso emblematico la Germania dove il divieto imposto dalle Federazioni di Calcio e Basket non ha fermato alcuni atleti che hanno preferito pagare multe salate pur di dare il loro sostegno ai manifestanti di Minneapolis.

Jadon Sancho e Achraf Hakimi, per esempio, hanno mostrato una sottomaglia con la “Justice for George Floyd”. Un gesto simile lo ha compiuto il giocatore americano Weston McKennie indossando una fascia al braccio con la stessa scritta. E poi Marcus Thuram, figlio di Lilian, ex giocatore di Juventus e Parma, si è inginocchiato sul terreno di gioco dopo aver segnato un gol.

Marc Thuram manifesta per George Floyd

La storia ha ampiamente dimostrato quanto sia forte il legame fra sport, calcio in particolare, e società/proteste sociali: questo a dimostrazione e a conferma del fatto che il calcio è lo specchio della società e che ha un potere unificante unico nel suo genere, in grado spesso di risolvere veri e propri conflitti

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