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Perché il calcio del Barcellona non paga più

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Mercoledì sera si è consumata l’ennesima debacle che nel corso degli ultimi anni ha visto protagonista la formazione catalana. Una sconfitta netta e inappellabile subita all’andata ha pregiudicato un ritorno più che dignitoso conclusosi con un punteggio che sta decisamente stretto agli uomini di Koeman. Il Barcelona ha evidenziato una volta ancora un gap netto rispetto ai fasti dell’era Guardiola, un’era, di gran lunga la più vincente della propria storia, che appare quanto mai lontana. In questo articolo cercheremo di analizzare i perché della parabola discendente imboccata dai blaugrana.

La masia, ovvero la cantera del Barcelona, non è più la fucina di talenti di qualche anno fa, né qualitativamente né quantitativamente: non sono più emersi gli Iniesta, i Xavi, i Puyol, i Valdes ed i Piqué, per non parlare dei Messi. Un limite non da poco per una squadra che coltiva le proprie future stelle istruendole secondo la filosofia un tempo importata da Cruijff e da lì in avanti adottata da chi si è succeduto alla guida dei catalani.

A ben vedere, questo primo intoppo poteva in parte essere preventivabile: mai nella storia del Barcelona – né in quella della nazionale spagnola – una generazione è stata così foriera di talenti. Il palmares dei blaugrana prima e dopo Guardiola – così come i talenti sbocciati in quegli anni, chi prima e chi durante – parla da sé, e non è di certo casuale il fatto che la nazionale iberica vanti in bacheca quattro titoli internazionali, tre dei quali vinti tra il 2008 ed il 2012 grazie ad una filosofia di gioco che deve moltissimo al Barcelona ed alla sua linea mediana di quegli anni. Non sarebbe nemmeno azzardato sostenere, in parte fantasticando, che un’ipotetica Catalogna indipendente avrebbe potuto ambire ad alzare il titolo iridato. Ad ogni modo il calcio spagnolo sembra lontano anni luce rispetto a dieci anni fa, prova ne sono le premature uscite di scena delle Furie Rosse nella Coppa del Mondo.

D’altronde, le generazioni d’oro sono tali proprio perché sono spesso uniche, quasi irripetibili. Esempi di questo tipo potrebbero essere l’Italia dei primi anni 2000, andando indietro di qualche decennio quella che fece suoi il secondo ed il terzo Mondiale della storia, la Francia che alzò il suo primo Mondiale nel 1998, la Squadra d’Oro ungherese degli anni ’50 o il Brasile di Pelé. Parliamo però di dei picchi altissimi, di cicli che prima o poi, più o meno bruscamente, sono destinati ad esaurirsi.

Il Barcelona non ha così più potuto attingere dal vivaio con la frequenza di un tempo, e per ovviare alla necessità di rinvigorire la rosa e cercare di mantenersi ai livelli più alti del calcio che conta ha messo mano al portafoglio sposando, da un certo punto di vista, la tanto denigrata filosofia degli arcirivali del Real, quella che un tempo veniva definita a Madrid Zidanes y Pavones (anche se il peso degli Zidanes, nel caso del Real, è andato ben oltre quello dei Pavones).

Così, assieme ad interessanti promesse destinate ad occupare un ruolo da protagonisti negli anni a venire – leggasi a questa voce Frenkie De Jong -, sono arrivati con una frequenza decisamente maggiore rispetto al passato campioni affermatisi altrove o giovani in rampa di lancio – Griezmann, Dembelé e Coutinho per citare tre nomi eccellenti – che però, per una ragione o per l’altra, ad oggi non hanno mantenuto le aspettative. Imporsi a Barcelona, d’altronde, non è semplice: lo sa bene Xavi, che in Take the Ball Pass the Ball, un documentario sull’era Guardiola uscito nel 2018, raccontò le difficoltà che lui stesso, nonostante fosse un prodotto del vivaio barcelonista, aveva incontrato poco prima dell’arrivo di Guardiola. Sottolineò il peso della maglia blaugrana, le classiche pressioni che un giocatore ha quando scende in campo al Camp Nou, pressioni a dire il vero tipiche di tutte le grandi squadre, ed altre difficoltà più esclusive che comporta indossare la camiseta del Barcelona. Queste pressioni più esclusive riguardano principalmente l’adattamento alla filosofia blaugrana, ad un modo di giocare unico che viene messo in pratica a partire dai primi calci. Lo stesso Thierry Henry, nel documentario già menzionato, disse di essersi trovato in enorme difficoltà e di aver faticato ad accettare dei dettami di calcio a lui sconosciuti. E se Thierry Henry in qualche modo ce l’ha fatta, qualcun altro, vedi ad esempio Zlatan Ibrahimovic, non è riuscito ad imporsi come invece ha fatto in qualsiasi altra squadra sia mai approdato.

Ad ogni modo, se volgiamo uno sguardo alle formazioni schierate tra l’incontro di andata e quello di ritorno degli ottavi di Champions League, notiamo che l’impegno e l’attenzione del Barcelona nei confronti del vivaio non è completamente venuta meno: nella sfida disputata in casa i blaugrana hanno schierato Pedri, un ragazzo giovanissimo arrivato dal Las Palmas, alcuni canterani di vecchio corso come Piqué, Busquets e Messi ed ha fatto subentrare Puig e Mingueza, due potenziali eredi dei più anziani compagni. Ed anche in quella di ritorno la presenza dei prodotti delle giovanili non è mancata. Senza contare che Ansu Fati, probabilmente il nome più altisonanti tra quelli dei campioncini scuola Barcelona, è infortunato da settimane. Nonostante le traversie sportive e societarie degli ultimi anni, si ha comunque l’impressione che il tentativo di mantenere intatta la propria filosofia sia resistito, così come è resistita l’enfasi sul gioco corale, nonostante si parli sempre meno di Tiki Taka: uno dei principali orgogli cittadini, il concetto di Tiki Taka è stato ripreso, copiato ed imitato da formazioni di ogni dove, ma nessuno ha mai ottenuto risultati minimamente paragonabili a quelli di Guardiola, primo tra tutti il Barcelona stesso., nonostante i blaugrana abbiano chiuso la sfida disputata nella capitale transalpina con il 67% di possesso palla.

Uno dei perché, ovvero una generazione di campioni giunta al crepuscolo ed una masia non più produttiva come un tempo, lo abbiamo già approfondito. Il secondo motivo a nostro parere risiede nell’evoluzione che ha riguardato il calcio europeo negli ultimi dieci anni: il calcio, e a testimonianza di ciò ci sono le vittorie di squadre come il Liverpool e il Bayern Monaco, pur rimanendo un gioco nel quale è importante mantenere il possesso del pallone, si è fatto più fisico ed atletico, ed il Barcelona da questo punto di vista sembra aver pagato enormemente dazio. La palla non gira più con la stessa rapidità e le gambe di alcuni veterani – Messi, Piqué e Busquets – sembrano non andare alla stessa velocità di un tempo. Il Barcelona quando perde lo fa in maniera evidente, spesso rovinosa, anche contro squadre sulla carta inferiori. Si tratta di un trend che ha caratterizzato le stagioni del Barcelona in tutte le ultime edizioni della Champions League, un trend che potrebbe essere destinato a protrarsi fino a quando la masia non tornerà a produrre i talenti di una volta e la società, ora ricompattatasi sotto la leadership di Laporta, riacquisirà la solidità che ha caratterizzato il decennio più glorioso della storia blaugrana.

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