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Calcio totale: una creatura multiforme?

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Esiste una convinzione alimentata da una narrazione oramai più che trentennale, forse un po’ superficiale, che mette nello stesso calderone il calcio olandese che stordisce la storia tra fine anni ’60 e inizio anni ’70, il Milan di Sacchi e degli olandesi e il Barcellona ideato da Pep Guardiola poco più di dieci anni fa.

In estrema sintesi, l’adagio condiviso e sedimentatosi nell’incoscio collettivo da diversi anni prevede che prima Arrigo e poi Pep, ispirati dai medesimi principi, abbiano assorbito la grammatica del calcio olandese, riadattandola alle scuole dei Paesi da cui provengono e alle esigenze specifiche della loro epoca.

Credo naturalmente che la tesi abbia un fondo di verità, ma che sia anche il prodotto di una lettura un po’ semplicistica del concetto di calcio totale, che viene spacciato come una sorta di dogma univoco, quando la storia racconta cose diverse.

Procediamo per gradi.

In primo luogo, credo sia riduttivo identificare il calcio totale solo con quello dell’Ajax e della nazionale olandese, e quindi con le idee di Rinus Michels e con la loro longa manu in campo (il Deus ex Machina Johan Cruijff). La genesi di questo movimento calcistico, che sale agli onori delle cronache a fine anni ’60 e che conquista l’ammirazione del mondo durante i mondiali di Germania Ovest, è infatti più complessa e ha radici che si ramificano in direzioni tra loro anche antipodiche.

Johann Cruijff

Nella sintassi di Michels, Kovacs e Cruijff coesistono la maestria nella gestione dello spazio degli ungheresi (esistono complesse analisi di Arpad Weisz che già preconizzano ciò che vedremo in campo qualche decennio più tardi), così come la loro cura dei sincronismi, il culto per la preparazione atletica dei britannici e dei nord europei in generale (ma anche del Grande Torino e della Grande Inter, tanto per citare due esempi) e un approccio di fondo a maglie larghe, poco incline ad adottare il concetto di ruolo in voga in Europa e più vicino a quello estremamente versatile mostrato dal River Plate degli anni ’40 e poi dal Brasile tra ’58 e ’70.

Ciò premesso, esiste nella stessa Olanda, e affonda le radici nella tradizione mitteleuropea, anche una versione del calcio totale decisamente meno incline a svolazzi e vezzi, più ortodossa, più rigorosa nelle orchestrazioni; un calcio totale che focalizza l’attenzione sulla pura dimensione organzzativa e che evita la spavalderia un po’ autocompiaciuta e civettuola dell’Ajax (il lascito più evidente dell’influenza sudamericana), per puntare al risultato. Ernst Happel è il demiurgo di questo calcio totale votato al vigore e al rigore, a una diversa forma di radicalismo, un calcio dominato da un raziocinio inflessibile e programmatico sin nei minimi dettagli; un calcio totale che troverà forse la massima espressione del cosiddetto difensivismo fiammingo, grigio e poco appariscente come i cieli di Bruges, eppure di superiore efficacia: le squadre di Happel e quelle che si ispirano al suo credo assomigliano più a una caserma che a una comune di artistoidi hippie, e questa distinzione fotografa con precisione il solco che separa i due filoni.

Non esiste chiaramente una linea di demarcazione netta e la mia distinzione viene formulata a posteriori, quando la storia ha già parlato. Ma, appunto, alcuni decenni dopo la fioritura di quel calcio, la coesistenza di visioni tra loro molto diverse è diventata evidente.

Come dicevo, la storia ha già raccontato certe cose: ha raccontato delle squadre fiamminghe che non facevano passare uno spiffero così come delle squadre argentine che, con la loro feroce applicazione difensiva, strappavano titoli storici a formazioni più quotate (cholismo ante litteram); ha pure messo in mostra la versione sovietica del calcio totale, una sorta di blocco orientale che assorbe le idee di Happel e le trasforma in un assioma inviolabile e deputato a dettare legge per molti decenni (la Dinamo Kiev che di fatto pratica da una vita lo stesso identico calcio).

La Dinamo Kiev di Lobanovskij

La storia però racconta anche del menottismo, delle squadre allenate da Cruijff, del Barcellona di Rijkaard e poi soprattutto di Guardiola, formazioni catturate dal raggio d’azione del concetto di calcio totale, ma capaci di interpretare le sue idee di fondo in maniera radicalmente diversa da quella della Dinamo Kiev o del Club Brugge.

Tracciata la cornice e identificate le sue vaste sottocategorie, che spesso si differenziano tanto una dall’altra da rendere difficile evocare ancora lo spettro di Michels, dove si colloca l’esperienza anomala del Milan di Sacchi?

Il Milan porta certamente a compimento alcune delle nozioni di fondo elaborate e tramandate da Michels e Happel, e lo fa nel Paese storicamente meno vicino ai dettami del collettivismo, in quell’Italia che ha costruito la sua gloriosa storia quasi solo sul binomio difesa-contropiede, cui ha aggiunto fuoriclasse a iosa, specie nel reparto difensivo, esaltando la dimensione individualista e reattiva del calcio.

Io credo che l’esperienza di Arrigo sia molto più in sintonia con quella italianista di quanto non voglia far credere, e che lo sdegnoso trattamento che Sacchi riserva al calcio italiano assomigli a una sorta di auto-esorcismo, al ripetuto tentativo di liberarsi dall’ansia di un’influenza che deve essere rinnegata senza pietà. Sacchi è un apostata e come tale deve maledire il proprio credo originario.

Premessa fondamentale: negli anni ’60 l’Italia sviluppa una grammatica calcistica che la porta a isolarsi dal resto d’Europa, così come era già accaduto agli inglesi, e forse anche per questo fraintende le idee di fondo del calcio totale, interpretato come un semplice progresso sul piano atletico; l’insistenza della narrazione italiana dell’epoca sull’eretismo podistico, sulla corsa, sull’agonismo, smaschera solo uno dei fattori di novità implementati da Rinus Michels e probabilmente il meno significativo, tanto che Johan Cruijff, in controtendenza rispetto a quanto recitiamo noi da decenni, proclama che proprio grazie alle idee di Michels e dell’Ajax la mole e la pura forza fisica passano in secondo piano; Cruijff aggiunge che nel calcio olandese non si corre di più degli altri, ma si corre meglio, in modo programmatico e organizzato, in sintonia con le idee del calcio posizionale. Nella nostra lettura è assurdo che in un calcio che noi intendiamo come movimentista e impostato sul ritmo vigano le regole del calcio di posizione, che derivano dal vecchio Metodo e che mettono al centro il fraseggio e la qualità: questo malinteso tuttavia rivela, a mio parere, come la rivoluzione olandese sia stata mal recepita e mal raccontata, in Italia, per molto tempo, dagli stessi epigoni della cultura italianista (breriani in testa).

Sacchi ha il merito indiscutibile di assimilare alcune delle regole di fondo del calcio olandese e michelsiano, a un livello più alto e sofisticato di quanto fecero alcuni precursori degli anni ’70, e di dare una sferzata alla mentalità del Milan e di riflesso del calcio italiano: Sacchi impara dal calcio totale ad adottare una filosofia di natura collettivista, a giocare con la difesa alta, a cercare di imporre il proprio gioco anche sui campi più ostici. Arrigo rompe con la tradizione italiana nella misura in cui decide di assumere un atteggiamento proattivo e non scende a compromessi, rifiutando di modificare le regole del gioco in corsa, assecondando le esigenze e i momenti della partita, dote che invece appartiene agli italianisti classici.

Ernst Happel

Le sue analogie con quel tipo di calcio, tuttavia, a mio parere finiscono lì. Non sono poche, ma la ferrea disciplina e il ruolo cardinale assegnato alla preparazione atletica avvicinano Arrigo ad Happel e ai suoi epigoni, molto più che alla scuola Michels e alle sue varianti (specie latine e sudamericane). La cura maniacale del dettaglio, anche in fase difensiva, appartiene alla filosofia del genio austriaco, molto meno al metodo in stile “improvvisazione controllata” in voga ad Amsterdam e poi in Catalogna, e fa parte naturalmente anche del nostro DNA calcistico: l’applicazione maniacale nella fase di contenimento è il segreto di molti successi dell’Italia e delle squadre italiane e Sacchi, da buon artigiano che lavora con ingredienti diversi, la eredita e anzi la esaspera.

Esistono altri due aspetti cruciali sui quali in Italia si sorvola da tempo, quando con faciloneria si avvicinano Sacchi e l’Olanda degli anni ’70: la vera rivoluzione orange consiste nello scardinamento e nel parziale superamento del concetto di ruolo. Molto più della preparazione fisica (forse più evoluta in Inghilterra e in Germania), ancora di più dell’atteggiamento spregiudicato, ciò che veramente connota come senza precedenti il calcio olandese è l’idea per cui i ruoli, nella sostanza, non esistono.

Ecco così un centravanti che in realtà è una mezzala (Cruijff), un mediano che fa il libero e però segna pure alla maniera della mezzala (Haan), una mezzala che esordisce come terzino, gioca a volte da stopper, a volte persino da attaccante (Neeskens), una finta ala che è quasi più un centravanti che parte dalla fascia (Rep), un numero dieci/ala che in sostanza gioca un po’ come gli pare (Rensenbrink), un terzino che farà il libero e anche il regista (Krol).

A Belgrado, nel 1973, in alcuni momenti il presunto libero Blankenburg si mette a giocare ala sinistra, e gli avversari in maglia bianconera vanno completamente in tilt. L’Ajax assomiglia a un’orchestra jazz, in cui i solisti hanno uno sotto gli occhi uno spartito che contiene alcune indicazioni di massima, ma che poi portano il tema un po’ dove gli pare. Senza precipitare nel verso libero dei sudamericani, che arrivano a un calcio totale quasi più per inerzia che per una strategia precisa, gli olandesi sono in ogni caso estremamente versatili e liberi di gestire le regole (pur chiare e precise) imposte dal tecnico.

Mi tolgo un vezzo da cinefilo: ho pensato all’Ajax quando mi è capitato di vedere i migliori film di John Cassavetes, che sceglieva attori fenomenali (Gena Rowlands, Peter Falk), scriveva una sceneggiatura essenziale e poi lasciava agli interpreti il più ampio spazio possibile, certo che le loro eccezionali qualità tecniche avrebbero consentito al progetto collettivo di reggere e di funzionare. Ecco, il calcio dell’Ajax e dell’Olanda per me funzionava esattamente così.

Veniamo al Milan di Sacchi: il concetto di ruolo, così profondamente radicato nella nostra cultura che anche per me è impossibile prescinderne, è onnipresente. Nel Milan il portiere para e basta, i terzini sono incaricati in primis di difendere (e anzi, come nella tradizione del catenaccio, il laterale destro marca e il laterale sinistro può avanzare), ci sono un libero e uno stopper, un centravanti, un regista classico e un mediano (altri due ruoli essenziali del calcio all’italiana).

Il rigore italianista del progetto viene un po’ allentato da Gullit, Rijkaard e in parte Donadoni, giocatori ibridi e difficili da identificare con un solo ruolo. Ma per il resto, il Milan di Sacchi risponde pienamente ai dettami del calcio all’italiana.

Ruud Gullit, giocatore versatile e polivalente

Si tratta a mio parere di una differenza fondamentale, da sempre sottaciuta, che pur collocando il Milan di Arrigo sulla scia delle squadre ispirate dal calcio olandese (meglio, michelsiano), mi impedisce di accostarlo all’Ajax e lo rende a mio parere molto più simile alle squadre di Happel o di Lobanovski. La tesi trova conferma quando Arrigo diventa commissario tecnico della nazionale, dimenticando la spregiudicatezza del suo Milan e trasformando il proprio rigore in una sorta di ossessione parossistica per moduli, ruoli predefiniti (Signori ala sinistra perché non si rinuncia al 4-4-2 in linea) eccetera (l’antitesi di ciò che aveva fatto Cruijff).

Le squadre di Cruijff e di Guardiola sono infatti molto più vicine alla filosofia michelsiana e si collocano quindi nel filone meno austero e funzionalista del calcio totale; sia il tecnico olandese sia l’erede spagnolo mettono la tecnica al centro del progetto, imbottiscono la squadra di ibridi e di centrocampisti, sono votati a un calcio quasi puramente posizionale che esalta il fraseggio e gli scambi di prima, soffrono la maggiore prestanza altrui (mentre il Milan di Sacchi andava a nozze contro le squadre di giganti) e sono più inclini alla distrazione, al narcisismo (la bella giocata è importante in quanto tale), alla gestione allegra della fase difensiva. Da noi un approccio simile non avrebbe mai attecchito né lasciato un’eredità importante, in quanto è troppa la sua distanza dai pilastri del nostro pensiero calcistico. Sacchi ha invece introdotto alcune novità essenziali, la cui importanza non può essere disconosciuta, che investono soprattutto l’atteggiamento – collettivista e votato all’attacco, ma si colloca comunque nel solco di una tradizione profondamente radicata nella nostra storia, di cui conserva le idee di fondo.

20070822 – 07082201FM ESPORTS PARTIT ENTRE EL BARÇA B I EL BARÇA AMB LA PRESENCIA DE RIJKAARD I GUARDIOLA BARCELONA 22 08 2007 FOTO FRANCESC MELCION AVUI

Il calcio di Guardiola, in definitiva, può essere considerato a tutti gli effetti come un ibrido tra il calcio tradizionale iberico (che ha avuto in Luis Aragones un fulgido esempio) e quello del duo Michels/Cruijff, il calcio di Sacchi nel suo nocciolo è invece una visione estremista del calcio di Happel, con un contorno di contaminazioni “artigianali” da altri filoni (difensivismo fiammingo, il Carrée magique della Francia, il pass and move del Liverpool). Volendo tornare agli anni Trenta, Guardiola è l’erede del passing game scozzese e di maestri come Jimmy Hogan, le idee di Sacchi assomigliano più al calcio rigoroso e collettivista introdotto dall’Arsenal di Chapman, dal quale si evolverà il filone pragmatico del calcio inglese (erroneamente considerato come “long ball”).

Contributi fondamentali di FRANCESCO SCABAR

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