King Kevin Keegan, il re dai tocchi leggeri e danzati

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Immagine di copertina: King Kevin Keegan con la maglia del Liverpool

Kevin Keegan: un nome che rimbalza tra le pieghe della storia come un calcio sferzato dalla brezza del nord, un epitome di quell’arte fragile e sprezzante che solo il football britannico sembra saper custodire. Immaginalo, allora, non come il semplice protagonista di un gioco, ma come il vento che scuote i tetti di Anfield, il navigatore audace che osa sognare di sfidare l’oceano, anche quando il mare sembra troppo forte, troppo cattivo.

Nato a Armthorpe, nel cuore di quella terra di confine tra lo Yorkshire e le Midlands, Kevin si muoveva come un’ombra tra i campi di grano. Un’ombra con i piedi leggerissimi e l’occhio che scintillava come una stella del nord. La sua carriera inizia in quel grumo di passione e sudore chiamato Scunthorpe, dove i numeri oscillano come le lancette di un orologio impazzito: 71 gol in 187 gare, un bottino che non uccide, ma alimenta il fuoco dell’ambizione. Un ragazzo che non si accontenta di rimanere nella valle dei sogni, ma decide di conquistare le vette più alte, di sfidare i giganti e di scrivere pagine indelebili sulla carta della gloria.

Keegan non è il prototipo ideale del giocatore inglese. È alto 1,72 centimetri, ha il volto di un guerriero sì, ma il cuore di un poeta. La relazione dello scout che lo porta giovanissimo alla corte dei Reds di Liverpool è abbastanza emblematica: “I’ve probably never seen anything like it. It looks like Best, Matthews and Hamrin all rolled into one midget who’s not even 5’7″.

Ricordo quando, alla sua prima apparizione contro il fortissimo Leeds United di Bremner & Co, la stampa inglese lo soprannominò “The King of Touch”, il re del tocco, e non per caso: aveva quell’arte sottile di far fluire il pallone come se fosse un’estensione del proprio corpo, un’ala snodata che danza in un balletto senza pause, senza errore. La sua intelligenza calcistica prendeva forma anche fuori dal campo, con frasi di goliardia pura che sono ormai leggenda: «Posso segnare solo in certi frangenti, cioè quando voglio», aveva detto sorridendo, come se il gol fosse un dono che si può distribuire come il pane. Ma il vero mago non si limita all’estetica. Mai.

Con il Liverpool vince la First Division nel 1976-77, quella che chiamano ancora ‘la vera League’, e la Coppa dei Campioni nel 1977, l’emblema di un’epoca d’oro. I numeri parlano da soli: 42 gol in 80 partite con i Reds, quasi un condottiero che volle lasciare un segno nella pietra del tempo. La sua esperienza si amplia con il passaggio abbastanza clamoroso all’Amburgo in Bundesliga, un’avventura che lo vede sfidare la mentalità teutonica stessa, quella terra che aveva stava fondendo il Totaal voetbal olandese con la Positionstaktik tedesco . Ed è lì che si inserisce “KKK” (King Kevin Keegan) in un mosaico di colori e culture, un ponte tra due nazioni e due mentalità.

Keegan con la maglia dell’Amburgo

E poi, inevitabilmente, la Nazionale. Per quanto siano ancora molti quelli che vedono le prestazioni di Keegan come “Bland and harmless” la sua storia con i Tre Leoni, 63 partite e 21 reti, parla leggermente differente. Capitan Keegan, il “leader nato” secondo Shankly, che nel 1982 guida l’Inghilterra alla fase finale di Spagna ’82, sfiorando quella gloria che si dimentica troppo presto, come un sogno sfumato al risveglio. Semmai sarà la sua carriera da allenatore ad avere più ombra che luce.

Un’arena di idee e battaglie: con Newcastle e Fulham soprattutto, cerca di riportare il calcio inglese ai fasti, sperando di scuotere quella terra che sembra aver dimenticato gli antichi valori. Ci proverà anche con la nazionale all’europeo del 2000 in Belgio e Olanda. Ma sarà una catastrofe…

Eppure, nel panorama attuale, Kevin Keegan appare come un nome invecchiato dall’oblio. Come può un uomo che ha trionfato due volte con il Pallone d’Oro (1977 e 1978) un premio che riposa sul suo petto come una medaglia di guerra, essere così poco menzionato nei discorsi di oggi? È come se il suo sorriso, la sua grinta, la sua fede nel gioco sincero si fossero dissolti tra le brume dell’oblio moderno, lasciando spazio a nomi più rumorosi ma meno pieni di quell’essenza che Keegan sapeva incarnare.

Chissà, forse il calcio di oggi ha perso qualcosa di lei, di quell’arte sottile che ti fa correre dietro a un pallone come fosse il testamento di un sogno avveratosi. E ci chiediamo, allora, come può un giocatore che ha vinto due Palloni d’Oro essere ignorato dal presente, come una leggenda di pietra sepolta sotto le sabbie del tempo, dimenticata ma non dimenticabile? E forse, in questa domanda, si nasconde il senso più profondo di un gioco che, come la vita stessa, si nutre di memorie e di sogni mai spenti.

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