Nell’immagine di copertina Antonello Cuccureddu impegnato contro il Derby County nella semifinale d’andata della Coppa dei Campioni ’72-’73
Il 20 maggio 1973 il campionato di serie A visse uno dei finali più rocamboleschi della sua storia. Il Milan, reduce dalla sofferta e “chiacchierata” vittoria di Salonicco nella finale di Coppa delle Coppe contro il Leeds, si presentava all’ultima giornata con un punto di vantaggio su una Juventus in costante rimonta e sulla sorprendente matricola Lazio. Al termine di 90 minuti caratterizzati da una sceneggiatura degna di un film del miglior Hitchcock, i rossoneri crollarono 5-3 nella “fatal Verona”, i biancocelesti incassarono sul filo di lana la vendetta sportiva del Napoli dopo le ruggini dell’andata e i bianconeri sbancarono Roma in rimonta a tre minuti dallo scadere con un gol siglato da Antonello Cuccureddu, operando l’incredibile sorpasso che regalò il quindicesimo scudetto della loro storia. A cinquant’anni esatti di distanza il protagonista dell’episodio rivive con Game of Goals quella giornata, proseguendo poi in un amarcord della carriera e dell’atmosfera, non solo calcistica degli Anni ’70.
Ripercorriamo innanzi tutto il campionato 1972-'73. Per voi, nonostante gli innesti dei pezzi da novanta Zoff e Altafini, non fu affatto facile confermarvi campioni d'Italia.
In effetti nella fase iniziale della stagione stentammo ad ingranare, poi prendemmo quota nel periodo invernale coinciso con il record di imbattibilità di Zoff e molte gare decise da Altafini, che stava cominciando a vivere una seconda giovinezza. Quindi ci fu un nuovo calo ad inizio primavera, in cui abbiamo forse pagato lo sforzo, anche mentale, dell‘impegno su due fronti con la Coppa dei Campioni. Dopo la sconfitta di Firenze ad inizio aprile tutto sembrava perso, con cinque lunghezze da recuperare sul Milan. Non ci siamo però dati per vinti e sulle ali dell’entusiasmo per la qualificazione alla finale di coppa con l’Ajax abbiamo inanellato cinque vittorie di fila, mentre i rossoneri, pagando probabilmente dazio ad un campionato condotto sempre in testa e il logorio della Coppa delle Coppe, perdevano progressivamente terreno.
Si arrivò così all'ultima giornata, con il Milan a comandare a quota 44 punti, tallonato ad una lunghezza dalla Juve e dalla sorprendente Lazio di Maestrelli. E domenica 20 maggio 1973 successe di tutto.
La squadra di Rocco, esausta per la battaglia di Salonicco, si sciolse come neve al sole a Verona, complice l’atteggiamento dei gialloblu per nulla intenzionati a fare da spettatori alla conquista dello scudetto della stella da parte dei rossoneri. All’intervallo era clamorosamente sotto per 3-1, mentre la Lazio era inchiodata sul nulla di fatto a Napoli. Da parte nostra accusammo la tensione a Roma e disputammo un brutto primo tempo, incassando la rete di Spadoni.
La scintilla scoccò però nell'intervallo.
Al rientro negli spogliatoi chiedemmo gli altri risultati e fummo spronati da Vycpalek e Boniperti a crederci fino in fondo, quanto meno per andare ad uno spareggio. Entrammo in campo molto determinati, dopo un quarto d’ora Altafini pareggiò di testa e continuammo ad attaccare fino alla fine.
E a tre minuti dal termine, quando sembrava ormai delinearsi un incredibile spareggio a tre, entrò in scena lei.
Ci fu un calcio d’angolo dalla destra, la difesa respinse il pallone, lo agganciai al limite dell’area, chiusi quasi gli occhi e tirai forte dritto per dritto. Quando li riaprii vidi la palla in rete e i compagni che mi venivano incontro per abbracciarmi. Penso che quello sia stato il gol più importante della mia carriera. Al fischio finale arrivò anche da Napoli la notizia della rete di Damiani che condannava la Lazio alla sconfitta, completando una giornata per noi magica.
Magica come gli anni della sua giovinezza a cavallo tra i '60 e i '70, che l'hanno vista spiccare il volo da Alghero a Torino verso il grande calcio. Ci racconti l'atmosfera di quel periodo e il percorso che l'ha portata in bianconero.
Dopo gli esordi alla Torres di Sassari passai al Brescia, con cui centrammo la promozione in serie A. In una partita di Coppa Italia contro la Juve in apertura della stagione ’69-’70 marcai a puntino Del Sol, faro della manovra bianconera. Ricevetti i complimenti da tutti, poi pur continuando ad allenarmi con intensità, non misi più piede in campo. Vedevo solo l’allenatore Silvestri che mi guardava e sorrideva senza dire nulla e pensavo che mi stesse prendendo in giro. All’apertura del mercato di novembre passai alla Juve e si svelò il mistero: avessi giocato anche solo un minuto col Brescia il trasferimento sarebbe saltato, in quanto da regolamento non si poteva essere ceduti ad una squadra della stessa categoria dopo aver disputato partite ufficiali.
Il suo impatto con la Juve?
Sono sempre stato tifoso bianconero. Da ragazzino giocavo con le figurine e tutto d’un tratto mi sono trovato a stare in campo assieme a quelli che erano i miei idoli. La prima cosa che ho pensato è stata: “Sto sognando?”
A rompere il ghiaccio però non ci ha messo molto.
L’esordio fu in trasferta contro il Cagliari. La Juve era ai margini della zona retrocessione e c’era appena stato l’avvicendamento in panchina con l’esonero di Carniglia sostituito da Rabitti. Stavamo perdendo e a pochi minuti dalla fine pareggiai con un forte tiro al volo appena dentro l’area. Da lì cominciammo la risalita e contendemmo a lungo lo scudetto a Riva e compagni.
L'atmosfera di Torino in quegli anni era particolare: si era nel pieno dell'immigrazione dal sud, spesso per trovare lavoro in Fiat, e voi calciatori eravate visti dai vostri conterranei come simbolo di integrazione e riscatto.
Fui accolto bene dai tifosi, in particolare dai sardi. Frequentavo spesso il loro circolo, eravamo molto uniti e se c’era bisogno di aiutare qualcuno non ci tiravamo indietro. Pensi che anche il mio parrucchiere era sardo. Più in generale, ho sempre avuto un ottimo rapporto con i sostenitori bianconeri.
Con qualche giornalista c'era però un particolare "derby regionale".
Si riferisce a Vladimiro Caminiti di Tuttosport, palermitano doc che preferiva i calciatori siciliani come Anastasi e Furino e mi dava sempre mezzo punto in meno in pagella rispetto a loro. Una volta chiariti, tornò ad aumentarmi i voti. Era molto polemico ma simpaticissimo e competente.
Poi avevate un presidente d'eccezione come Giampiero Boniperti.
Con lui non potevi trattare quando ti presentavi per rinnovare il contratto. Prendere o lasciare e se perdevi lo scudetto ti invitava a tornare l’anno dopo quando avessi avuto di nuovo il tricolore cucito sulla maglia. Comunque ti faceva stare bene, soprattutto con i premi partita e vittoria, e conosceva tutti gli aspetti del calcio.
Lei è stato uno dei giocatori più duttili del calcio italiano, un vero e proprio jolly che ha fatto le fortune degli allenatori che l'hanno avuta.
Il ruolo che preferivo era quello di centrocampista. Mi piaceva correre, recuperare palla e rilanciare l’azione, servire i compagni in profondità e anche inserirmi per andare al tiro e cercare il gol. Mi adattavo però a giocare in qualsiasi zona del campo e ruolo in cui ci fosse bisogno. Pensi che nel solo campionato ’75-’76 ho indossato sette maglie diverse giocando in altrettante posizioni. In carriera gli unici numeri che non ho portato sulla schiena dovrebbero essere l’1 e il 9. D’altronde, come portiere non ero tagliato e come centravanti avevo compagni molto più forti (ride, ndr.).
Arretrando di posizione divenne un precursore dei terzini di spinta prima di trasformarsi in ferreo marcatore.
E’ vero. Nel ’74, appena arrivato Parola in panchina, mancava un terzino sinistro e spostarono me in quella posizione con Gentile a destra ed entrambi ci proponevamo in fase offensiva. Trapattoni ci invertì di fascia avanzando Tardelli a centrocampo, poi con l’avvento di Cabrini presi a giocare stabilmente a destra sdoppiandomi fra marcatura e spinta sulla fascia. Diciamo che per quegli anni avevamo un gioco già molto moderno.
L'altra sua caratteristica che gli appassionati ricordano era il destro al fulmicotone.
Mi è sempre piaciuto calciare secco e forte. Dalla distanza riuscivo a unire potenza e precisione. Mi allenavo a lungo facendo disperare i portieri, con Zoff che ogni tanto mi implorava di smettere di bombardarlo di tiri. Grazie al mio destro potente fui designato rigorista della squadra nel ’73-’74 e ne segnai parecchi.
Suo malgrado è però ricordato forse per uno dei suoi pochi errori.
Purtroppo sì, quello contro l’Independiente nella finale secca di Coppa Intercontinentale del ’73. Giocavamo a Roma e noi sostituivamo l’Ajax che ci aveva battuti nella finale di Belgrado ma si era rifiutata di incontrare di nuovo gli argentini dopo la doppia sfida particolarmente accesa dell’anno precedente. La grossa occasione capitò nella ripresa. Sul dischetto c’era però una buca, allora misi il pallone un po’ più avanti ma arrivai lungo con il passo di rincorsa e presi il pallone da sotto spedendolo alle stelle. Probabilmente avevo visto degli uccellini sopra la traversa e volevo prenderli (ride, ndr.). D’altronde solo chi non tira i rigori non li sbaglia. Dominammo a lungo, colpendo anche una traversa, ma loro ci beffarono nel finale con un contropiede di Bochini.
Le coppe per la Juve sono state sempre gioie e dolori.
A cominciare dalla mia generazione. Nel ’71 perdemmo la Coppa delle Fiere restando imbattuti in tutto il torneo a causa del valore doppio dei gol segnati in trasferta che premiò il Leeds in finale. Un vero peccato perché avremmo voluto dedicare il trofeo al povero Armando Picchi, mancato proprio alla vigilia della doppia sfida decisiva. Due anni dopo la più grande delusione della mia carriera con la sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni contro l’Ajax. In quell’occasione pagammo il lungo ritiro e gli errori di formazione di Vycpalek, che modificò l’undici di base per schierare tre punte con Altafini, Anastasi e Bettega, lasciando fuori me ed Haller e indebolendo il centrocampo. Purtroppo fummo gettati nella mischia a metà ripresa, quando la situazione era già compromessa. Che amarezza vedere gli olandesi gettare la coppa, cui noi avremmo tenuto tantissimo, nel bagagliaio del pullman assieme alle maglie sporche quasi fosse un trofeo di nessun valore, tanto erano abituati a vincere. La rivincita morale arrivò però nel ’77 con la conquista della Coppa Uefa, questa volta il gol in trasferta premiò noi a spese dell’Athletic Bilbao, il primo trofeo internazionale della Juventus vinto con una squadra granitica di tutti italiani. Anche nelle coppe ho dato il mio contributo in fase realizzativa, con i tedeschi dell’Est del Magdeburgo la mia vittima preferita nel corso di quegli anni.
Capitolo nazionale. Una manciata di presenze condite però da belle soddisfazioni.
Su tutte la vittoria per 2-0 contro l’Inghilterra a Roma nel novembre del ’76 dove marcai Keegan, all’epoca tra i più forti giocatori europei, ricevendo i complimenti anche dalla stampa estera. Poi come dimenticare la spedizione ai Mondiali di Argentina del ’78 imperniata sul blocco Juve, con addirittura nove bianconeri in campo contro l’Olanda. Trovai spazio durante il torneo dopo l’infortunio di Bellugi, facendo la mia parte in una difesa targata Juve. Purtroppo, dopo quel Mondiale, Bearzot fece altre scelte e la mia carriera in nazionale si esaurì.
Così come quella nella Juventus, dopo dodici stagioni di onorata militanza.
Alla fine del campionato ’80-81 fui convocato da Boniperti che mi comunicò che ero stato ceduto alla Fiorentina. All’epoca non si poteva ancora rifiutare il trasferimento, tutto subito ci rimasi male, poi accettai e devo dire che ci andai anche volentieri, disputando altre tre belle annate in una città stupenda e sfiorando un altro scudetto.
Da Alghero era partito e ad Alghero è tornato. Un ritorno alle origini anche nel modo di vivere il calcio.
Da qualche anno mi sono di nuovo stabilito in Sardegna. Qui ho fondato e gestisco l’Associazione Sportiva Dilettantistica Cuccureddu 1969, l’anno del mio esordio in serie A, una scuola calcio in cui cerco di trasmettere ai ragazzini passione e, in collaborazione con le famiglie, valori come rispetto ed educazione, oltre ai primi rudimenti del mestiere. Certo che se guardo ai miei tempi è cambiato tutto. Noi giocavamo per strada fra pietre, buche e fango ed imparavamo a controllare la palla e a non cadere per non farci male. Adesso se non hanno il campo in sintetico si lamentano perché si sporcano. Ho iniziato con tre squadre di ragazzi, ma adesso, a causa di problemi all’impianto sportivo, posso allestirne una sola. Non appena verrà rifatta la pista di atletica passeremo a costruire il famoso terreno da gioco in sintetico, poi potrò tornare ad accogliere più ragazzi. Stare con loro mi fa restare giovane al di là delle mie quasi 74 primavere, in campo mi diverto a fare un po’ di tutto, compreso tracciare le linee con carriola e gesso prima della partite.
In conclusione, un bilancio della sua carriera?
Non mi posso proprio lamentare. Ho realizzato il mio sogno di ragazzo, ho giocato ai massimi livelli con grandi campioni, vinto sei scudetti, una Coppa Italia, una Coppa Uefa e vestito l’azzurro. Mi sarebbe piaciuto vincere qualcosa di più in campo internazionale, ma non si può avere tutto dalla vita. Con gli ex compagni ho mantenuto buoni rapporti, quando abitavo ancora a Torino ci vedevamo spesso, ora ci sentiamo di tanto in tanto e riavvolgiamo il nastro dei ricordi.
CHI È ANTONELLO CUCCUREDDU Classe 1949, sardo di Alghero, iniziò a giocare nella Rinascita, la squadra presieduta dal padre, per passare in seguito, sempre nella sua città, al Fertilia. Nel 1967 il trasferimento ai sassaresi della Torres, in serie C, seguito l’anno successivo dall’approdo al Brescia, con cui ottenne una promozione in serie A. Nel mercato “di riparazione” del novembre 1969 il grande salto alla Juventus, dove giocò per dodici stagioni vincendo 6 scudetti (’72, ’73, ’75, ’77, ’78 e ’81), la Coppa Italia del ’79 e la Coppa UEFA del ’77, primo trofeo internazionale conquistato dai bianconeri, collezionando in tutte le competizioni 438 presenze e 39 reti, di cui 26 in serie A. Al suo attivo anche le sfortunate finali di Coppa delle Fiere del ’71 e di Coppa dei Campioni del ’73 perse rispettivamente contro Leeds ed Ajax. Nell’81 fu trasferito alla Fiorentina rimanendovi tre stagioni. Chiuse la carriera nell’84-85 al Novara in serie C2. Calciatore versatile, paragonato agli inizi della carriera ad Eusebio Castigliano, mediano del Grande Torino, per la spiccata propensione offensiva, venne impiegato come jolly di centrocampo e difesa, svariando dal ruolo originario di mezzala a mediano, da terzino fluidificante e marcatore a stopper. Dotato di un tiro teso, potente e preciso, si fece valere anche in fase realizzativa soprattutto con le conclusioni da fuori area, i calci di punizione ed i rigori, toccando l’apice nel ’73-’74 con 12 reti segnate in campionato. In Nazionale ha collezionato 13 presenze esordendo il 26 ottobre 1975 a Varsavia contro la Polonia e prendendo parte al Mondiale del ’78 in Argentina, dove scese in campo in cinque occasioni. La sua carriera di allenatore è iniziata nella Primavera della Juventus, con cui nella prima metà degli Anni ’90 ha vinto scudetto, Coppa Italia e Torneo di Viareggio, contribuendo alla crescita di numerosi talenti, tra cui Alessandro Del Piero. Dopodiché una lunga militanza sulle panchine di serie C impreziosita dall’aver condotto Crotone e Grosseto alla promozione nella serie cadetta. Definitivamente rientrato nella sua Alghero, ha fondato e gestisce tutt’oggi la scuola calcio “Cuccureddu 1969”, dedicata all’anno del suo esordio in serie A. |