Immagine di copertina: Messi e Lewandowski: i favoriti per il Pallone d’Oro 2021
La questione mi frulla in testa da un po’ di tempo: ogni volta che leggo giudizi poco lusinghieri, se non vere e proprie stroncature, sui campioni contemporanei, mi arrovello senza arrivare a una soluzione, ovvero mi chiedo quale tra le seguenti alternative, tra loro antinomiche, sia più verosimile o comunque sostenibile sul piano argomentativo:
- i calciatori attuali, in effetti e con tutta la buona volontà, non sono straordinari, quantomeno se comparati ai fuoriclasse del passato;
- è solo una questione di prospettiva, anche in passato i contemporanei hanno dovuto masticare amaro e sono la storia ha restituito loro la gloria che si erano meritati durante la carriera;
- i principi e le regole che governano il nostro giudizio si sono modificati ed evoluti in modo tale da funzionare come una lente deformante: in altre parole, non è la realtà a essere cambiata, ma è la nostra capacità di giudizio a essersi appiattita, involuta sino a diventare scialba e focalizzata esclusivamente su tre o quattro episodi cruciali, gli unici cui davvero diamo peso nel corso di intere stagioni se non di intere carriere.
La logica mi imporrebbe di archiviare subito la prima opzione, che cozza evidentemente contro ogni evidenza empirica.
Rigetto a priori ogni discorso sulla presunta superiore complessità/semplicità come esiti dell’evoluzione del calcio, in quanto chi imposta il discorso in questi termini, a mio parere, cerca solo di mascherare una conoscenza superficiale del fenomeno, ma forse dovrei dire della società umana e dell’essere umano in quanto tale. Evito quindi di soffiare nelle trombe della polemica o di chiamare a raccolta tutto il vocabolario della presunzione e la sua miopia (Vuoi mettere le rigide marcature degli anni ’80? Oppure, a contrario, come puoi pensare che un calciatore degli anni ’60 fosse un campione, dato che il fenomeno calcio all’epoca era di una povertà amatoriale?) per proclamare che i fuoriclasse degli anni ’20 hanno lo stesso identico valore simbolico e tecnico dei fuoriclasse degli anni ’70 così come dei fuoriclasse attuali, e aggiungo che opinare diversamente significa trasformare meriti contestuali (di natura scientifica, alimentare, tecnica, ma direi sociologica e storica in senso lato: non è un merito essere nati prima o dopo il varo del vaccino contro la poliomielite, o sbaglio?) in meriti individuali. Punto. Come avrebbe detto Bill Hicks, Case Fucking Closed.
Ciò premesso, mi permetto di osservare come, nel panorama contemporaneo e nella generazione cresciuta all’ombra di Messi e di Cristiano Ronaldo, non abbiamo visto un giocatore che abbia eguagliato in toto e senza margini di discussione la statura dei due fenomeni; ma subito correggo il tiro evidenziando come anche tra i giocatori nati dal 1988 in poi non manchino i fuoriclassse capaci di segnare un’epoca (per limitarmi a campioni indiscutibili, senza pretesa di esaustività, voglio citare Robert Lewandowski, Neymar, Kevin De Bruyne, N’Golo Kante, Thomas Muller, Eden Hazard, Mohamed Salah, Virgil Van Dijk, Kylian Mbappe) e come, in ogni caso, due singoli fuoriclasse non siano rilevanti sul piano statistico. Nel 1994 non c’erano in campo, a mio sommesso parere, un Diego Armando Maradona o un Michel Platini, ma questo non esclude che le rose traboccassero di grandi giocatori e che qualche nomignolo destinato a lasciare tracce profonde nella storia fosse in attività (Roberto Baggio? Romario?).
Superata la prima argomentazione, mi concentro sulla seconda. Stiamo parlando solo di prospettiva? In un certo senso sì, le graduatorie, i confronti etc.. per quanto basati in ultima analisi sui fatti, in fin dei conti gonfiano il petto e possono rivendicare un ruolo effettivo solo nel mondo della parola, del discorso effimero (ogni volta che ci prendiamo a sberle per stabilire se sia stato più forte Tizio o Caio immagino Michel Foucault sorridere soddisfatto sotto la pioggia). La verità è che sappiamo poco di quasi tutti i giocatori del passato e che la loro analisi, in sintesi, è di natura prevalentemente discorsiva e spesso dossografica. Ma lo stesso vale per quasi tutti i giocatori del presente, della cui carriera non possiamo conoscere ogni singolo dettaglio, e rispetto ai quali ci affidiamo anche ai pareri altrui.
È giusto o sbagliato farlo? Un grande scrittore e giornalista (il fondatore di questa webzine) afferma che, per giudicare un giocatore, nulla vale come i nostri occhi, e personalmente sono d’accordo. Però gli occhi non bastano: affidarsi anche all’analisi letteraria e alla dossografia è imprescindibile.
Chi nega questa evidenza secondo me sta ciurlando nel manico: se oggi studiamo la carriera di Johan Cruijff o di Marco Van Basten, non lo facciamo perché, dopo accurato esame di ogni singolo giocatore del passato, siamo giunti alla conclusione che gli olandesi fossero due fuoriclasse, ma perché qualcuno prima di noi ha avuto la fortuna di vederli e di riconoscerne la grandezza, stimolando la nostra curiosità.
La nostra opinione quindi nasce spuria, sviluppandosi ha assorbito le opinioni altrui, e non c’è modo di evitarlo. A questa evidenza, che spesso neghiamo anche a noi stessi, si aggiunge il problema della prospettiva: tutti noi siamo italiani, nati in Italia in un determinato momento, con determinati strumenti intellettivi e tecnologici a nostra disposizione, una specifica formazione sportiva e culturale eccetera… E anche questo contribuisce a plasmare la nostra opinione a monte, in forme subdole di cui siamo in larga misura inconsapevoli. Sostenere che esista un parere puro che viene inquinato a posteriori è pura illusione: il parere matura in un fertile ambiente discorsivo che gli fornisce il DNA e forse anche il necessario fabbisogno alimentare.
E se ci fermiamo a riflettere anche solo per un istante, d’altra parte, è giusto così: la libertà di formarsi un’opinione sui fatti, sacrosanta e direi anzi doverosa, non deve trasformarsi nella presunzione di conoscere fatti che non si conoscono. Il supporto altrui diventa quindi determinante, specie quando ci arrabattiamo tra video di scarsa qualità, episodi sparsi che non possono avere un significato troppo importante in una carriera che dura molti anni eccetera.
Riconosciuti tutti i limiti cognitivi di cui sopra, ritengo che la prospettiva sia effettivamente una lente che deforma la realtà, salvando spesso il meglio del passato, oppure cancellandolo in maniera ingiusta, o ancora tramandando ai posteri soltanto eventi specifici che segnano la memoria collettiva e tralasciando invece fatti meno noti, ma a volte non meno significativi.
Pochi giorni or sono mi sono imbattuto in un pezzo che Gianni Brera aveva dedicato ai campionati Europei del 1988 e dopo poche righe mi sono pizzicato la faccia, perché volevo essere sicuro di essere sveglio: il leggendario giornalista lombardo – che solo pochi mesi prima aveva tolto la corona dal capo di Sua Maestà Michel Platini, deprecandone la scarsa vena agonistica e tacciandolo di furbizia ingannatoria ai danni degli spettatori, ignari della sua presunta tendenza a scomparire quando il clima della contesa si accendeva – ne ha per tutti, da Dasaev che è “meno bravo di quanto si creda“, a Gullit, etichettato come Grullit con il solito pungente sarcasmo, passando per i Gemelli del gol Vialli e Mancini (italianuzzi) o per i difensori inglesi (“candidi e giganteschi pipponi“); addirittura, Brera mette in discussione che due giocatori come Matthäus o Brehme siano dei campioni (?!). Abbiamo fatto nostra la convinzione che gli ultimi anni ’80 fossero un periodo in cui i fuoriclasse non si contavano, eppure non sempre chi viveva quelle stagioni partita dopo partita era altrettanto entusiasta; aggiungiamoci (la prospettiva) che il calcio italiano in quel frangente guardava tutti gli avverrsari dall’alto e da distanza siderale, e che questo amplia ulteriormente, ai nostri occhi, il solco che separa gli attuali anni di magra da quella âge d’or. L’esempio di Brera non è l’unico : ho letto articoli severi e ai limiti dello sprezzante sui mondiali di Spagna e su quelli argentini di quattro anni prima, altri tornei che la contemporaneità ha trasformato nei suoi feticci.
Ecco quindi che sorge un sospetto : non sarà che anche i giocatori che stanno dando il meglio in questi anni saranno rivalutati a posteriori, spesso trasformati in totem veri e propri, anche al di là dei loro meriti sul campo, come accade oggi a un Guti (talento sopraffino che però non si è mai imposto sul serio, diventato ciononostante oggi l’oggetto di un culto entusiastico e un po’ modaiolo). L’unica regola che cerco di fare mia, quando mi avventuro in queste analisi, è la seguente : un giocatore può essere apprezzato nel modo più ampio solo a fine carriera, naturalmente purché si conosca bene e in modo puntuale la sua carriera. I fuoriclasse sono sempre tali e vanno riconosciuti come tali, pur con tutte le sfumature del caso, e più che classificati, vanno categorizzati.
Passo infine alla terza problematica, forse la più scottante, e qui prendo posizione in modo meno accomodante e rispondo che sì, a mio modo di vedere negli ultimi anni abbiamo inconsapevolmente alzato l’asticella, dimenticandoci di ciò che ci faceva godere come ricci sino a un po’ di anni fa.
In poche parole, oggi non è sufficiente che un giocatore dimostri sul campo, partita dopo partita, di possedere grandi qualità e di saperle usare ai fini del gioco del risultato, per conquistarsi la nostra approvazione. Oggi chiediamo che sfiori l’infallibilità e che, più di ogni altra cosa, sia decisivo quando si infiamma l’unica competizione che sembra ancora dotata dello spessore tecnico necessario e consacrare i campioni quali immortali, ovvero la Champions League. Ma attenzione, uno o due tornei non sono sufficienti a renderti un campione, in quanto è essenziale che ti confermi se non ogni anno, quasi. Diversamente sarà difficile staccarti dalla fronte l’etichetta di sopravvalutato, incompiuto, discontinuo, meno bravo dei campioni veri che furono.
Se le premesse valutative contemporanee, con qualche semplificazione, sono quelle compendiate nel precedente paragrafo, mi chiedo se le stesse abbiano trovato analoga e puntuale applicazione anche con i campioni del passato, specie di quello più recente (quello remoto si perde nelle nebbie del tempo e il rischio diventa quello opposto, ovvero di cancellare dalla mappa della storia tutti i nomi grandi ma esclusi dalla ristretta rosa dei Supereroi), e l’ovvia risposta è No. Chi nega questa circostanza, a mio parere, è vittima del proprio stesso bias cognitivo.
Sul punto sfido chiunque a smentirmi: abbiamo chiesto a fuoriclasse indiscutibili come Ronaldo, Zinédine Zidane, Ronaldinho, Andrea Pirlo, Luis Figo e molti altri di confermarsi ogni singola stagione, nella competizione più importante, prima di essere riconosciuti come fuoriclasse? No. Se è vero che oggi la Champions riveste un ruolo ancora più centrale di quello ricoperto vent’anni or sono, è altrettanto vero che la qualità e quantità delle contendenti nella massima competizione europea è tale per cui affermarsi in ogni edizione della Champions è estremamente difficile, se non proibitivo, e che le teorie per cui la coppa UEFA di un tempo valeva l’attuale Champions, così come la vecchia Coppa dei Campioni e magari pure la Coppa Libertadores, beh mascherano una convinzione che non potrà mai trovare conferma nella realtà e forse anche una certa difficoltà ad ammettere che un torneo come la Champions contemporanea probabilmente assorbe, in buona misura, il valore complessivo di tutti quei tornei.
Abbiamo chiesto a fuoriclasse indiscutibili come Ronaldo, Zinédine Zidane, Ronaldinho, Andrea Pirlo, Luis Figo e molti altri di confermarsi ogni singola stagione, nella competizione più importante, prima di essere riconosciuti come fuoriclasse? No. Se è vero che oggi la Champions riveste un ruolo ancora più centrale di quello ricoperto vent’anni or sono, è altrettanto vero che la qualità e quantità delle contendenti nella massima competizione europea è tale per cui affermarsi in ogni edizione della Champions è estremamente difficile…
Anche qui, sarà forse la Storia a fare giustizia, sgomberando il campo dalla rigorosa severità che sembra aver congelato le nostre facoltà di giudizio nelle ultimissime stagioni, a seguito della lunga e gloriosa epopea di Lionel Messi e di Cristiano Ronaldo ; questi due, grazie a qualità individuali difficilmente ripetibili e ai Dream Team che gli hanno supportati, hanno introdotto nel mondo del calcio (e della Champions) valori e quindi standard inavvicinabili, una sorta di eccellenza continua e ripetuta che si è dimostrata proibitiva per quasi tutta la concorrenza, ma che avrebbe condannato a un ridimensionamento anche molti tra i fuoriclasse che li hanno preceduti nel recente passato, se non tutti.
Come concludere ? Ne riparleremo tra un po’ di anni.