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La top 11 del Barcellona: da Zubizarreta a Stoichkov

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Inauguriamo oggi una nuova rubrica, dedicata alle formazioni ideali all time dei maggiori club europei. Si tratta di un giochino, come tale destinato inevitabilmente a scontentare qualcuno, specie quando si parla di club che hanno alle spalle una storia lunga e gloriosa. Ho deciso di dedicare il primo pezzo ai catalani con la maglia blaugrana, una tra le formazioni più seguite e forse la più idiosincratica in assoluto nell’era moderna, anche alla luce della loro recente e dolorosa separazione da Lionel Messi.

Ho scelto di schierare la squadra con un 4 3 3 che credo mi consenta meglio di ogni altro modulo di inserire in formazione i giocatori migliori.

Portiere: Andoni Zubizarreta

Diciamo la verità: se il Barcellona ha potuto contare su vere e proprie eccellenze pressoché in ogni reparto, la posizione dell’estremo difensore fa un po’ eccezione. Ho riflettuto a lungo sul nome da scegliere, ma ho deciso di scartare il pur talentuoso Antoni Ramallets, perché molto discontinuo e ritenuto il principale responsabile della dolorosa sconfitta sofferta dal Barcellona all’esito della prima finale di Coppa dei Campioni, risalente al 1961 e persa in malo modo, anche a causa di alcune disattenzioni imperdonabili del portiere, contro il Benfica. L’esclusione di Victor Valdés Arribas mi ha creato meno problemi: l’ho seguito per anni e pur trovandolo meno pessimo di quanto si raccontasse in giro, continuo a reputarlo l’archetipo del portiere senza infamia e senza lode, il cui contributo alle epopee blaugrana più gloriose è stato decisamente marginale e spesso rubricato alla voce “non ho fatto danni”. Ter Stegen mi ha creato qualche difficoltà in più, ma nel suo caso hanno pesato gli alti e bassi delle prime stagioni in Spagna e una carriera che è ancora lontana dallo scrivere la parola fine. Zubizarreta, lungo e carismatico, abile soprattutto nelle uscite, credo resti il candidato più autorevole, anche perché difende nel migliore dei mondi la porta del Barcellona durante gli anni del Dream Team ed è una garanzia sia in termini di continuità che di affidabilità, due doti che per un portiere significano quasi tutto.

Laterale destro: Dani Alves

Obiezione accolta: Alves non è mai stato un portento nella pura fase difensiva e pesano sulla sua coscienza alcuni errori di lettura e di sintassi calcistica collettiva davvero imperdonabili. Non rinnego le serate che ho terminato maledicendo la sua spregiudicatezza tattica, prima e principale causa di quelle voragini difensive che il Barça, in alcune occasioni, ha pagato a caro prezzo. Però neppure rinnego ciò che il brasiliano ha regalato al club catalano durante la sua lunga militanza in blaugrana: Alves ha inaugurato una nuova figura di laterale, che sarebbe forse più opportuno definire come regista, se non addirittura come numero dieci posizionato sulla fascia e incaricato di percorrerla in entrambe le direzioni per novanta minuti. Alves ha rappresentato un’arma tattica e tecnica fondamentale, un grimaldello in grado di scardinare i reparti difensivi più coriacei e di offrire sempre un’opzione aggiuntiva ai tre cervelli che dominavano il gioco nell’epoca di Guardiola. Anche alla Juventus hanno imparato ad apprezzarne le qualità: dopo i primi mesi imbronciati, complici un adattamento difficile al nostro calcio e un’età non più verdissima, Alves ha saputo cambiare marcia laddove la sua classe era chiamata a fare la differenza, ovvero in Champions League, torneo in cui ha collezionato prestazioni da campione e le giocate decisive di regola appannaggio (appunto) del numero dieci. In sintesi, non ho dubbi: il miglior laterale destro della storia catalana non può che essere il piccolo brasiliano di Juazeiro.

Difensore centrale: Carles Puyol

Tale Franco Baresi, che qualcosa in materia dovrebbe capirne, ha sintetizzato le qualità di Carles Puyol elogiando il coraggio con cui il difensore spagnolo metteva la testa in posti dove altri giocatori neppure avrebbero osato mettere un alluce. In una squadra di bravi ragazzi che facevano leva sulla pura qualità tecnica come trampolino per la gloria, un leader spigoloso (affiancato a un altro caratteriale come Alves) serviva come il pane. Carles ha speso una vita a difendere i colori blaugrana, dominando l’aria a dispetto di una statura da normolineo (alla stregua di Cannavaro), facendo a sportellate senza timore alcuno contro gente ben più corazzata, dimostrando un’eccezionale capacità di recupero in campo aperto, specie negli anni giovanili (la sua capacità di recupero era il segreto della diafana struttura difensiva catalana). Puyol ha debuttato nel vecchio millennio e ha comandato da capitano indomito la barca sia durante le lunghe epopee di gloria (gli anni di Rijkaard e Guardiola) che durante i frequenti scivoloni e le stagioni da dimenticare. Ha alzato al cielo due Champions League e grazie a un tempismo nel gioco aereo che vanta pochi eguali si è tolto la soddisfazione di segnare reti che pesavano quintali, raccogliendo scampoli di gloria anche nell’area di rigore avversaria (penso al tuffo olimpico con cui ha regalato il vantaggio ai suoi nel memorabile successo per 2-6 a Madrid). Mi sbilancio? Il miglior difensore della storia blaugrana e forse dell’intera storia del calcio spagnolo.

Difensore centrale: Ronald Koeman

Benché meno vasta di quella di altri club altrettanto titolati, la legione dei difensori centrali che hanno vestito con successo la maglia blaugrana rimane ricca di nomi di rilievo, su tutti quelli di Migueli (baluardo catalano nel corso dei tormentati anni ’70 e ’80) e di Gerard Piqué, la colossale anomalia (in ogni senso) dell’ultimo quindicennio, dominato da giocatori piccoli e agili la cui scarsa vena agonistica ha trovato un imprescindibile bilanciamento soprattutto nella stazza e nella grinta del campione nato a Barcellona il 2 febbraio del 1987. Ciò premesso io scelgo Rambo Koeman, semplicemente perché lo reputo un calciatore superiore ai pur valorosi Migueli e Piqué: Rambo (soprannome che non aveva nulla di casuale o di iperbolico) era l’anima del Dream Team di Cruijff, un superbo centrale dotato di una castagna con pochi eguali, abilissimo nel lancio a lunga gittata e nella lettura del gioco, valido anche in fase di copertura, specie per la capacità di giocare in anticipo, a dispetto di una certa pesantezza e di un modo di correre a volte macchinoso. Poco importa: Koeman fiutava l’aria come i migliori segugi e faceva leva sul proprio intuito per proteggere la porta; dettaglio non secondario: Koeman segnava come un attaccante ed è celeberrima la punizione che ha regalato alla Catalogna la prima Coppa dei Campioni, nel 1992, esito ultimo e più alto dello spettacolare ciclo di Cruijff.

Laterale sinistro: Jordi Alba

Anche qui, accolgo le obiezioni: Alba è uno stantuffo dotato di tre polmoni, più che un grande laterale difensivo. Sfido però a trovare di meglio; confesso che l’attuale terzino catalano è stato in ballottaggio con Sergi Barjuán Esclusa, che lo ricordava sotto molti profili, al punto da rappresentarne una sorta di presagio. Il valore dei due calciatori è simile, ma avendo a seguito a lungo entrambi opto per il difensore che punì gli azzurri a Kiev nel 2012, giusto pochi giorni prima di trasferirsi a Barcellona. Chi ha seguito i blaugrana nel corso degli ultimi anni sa che lo schema palla lunga pennellata da Messi/ inserimento di Alba ha rappresentato lo snodo chiave della manovra del Barcellona, l’arma da sfoderare quando i fortini avversari si dimostravano invalicabili. Jordi Alba ha collezionato decine di assist e pure qualche segnatura importante, a conferma della sua statura di campione, regalandosi il lusso, in alcuni memorabili Clasicos, di cancellare dal campo un campione come Gareth Bale.

Mezzala destra: László Kubala

Una precisazione: le formazioni all time, per quanto debbano necessariamente possedere una logica, non sono esattamente votate all’equilibrio. L’obiettivo non è assemblare un collettivo che possa scendere in campo, non solo almeno, ma selezionare i migliori. Ecco perché a volte ho dovuto sacrificare l’equilibrio alla qualità. Non che servano troppe spiegazioni, in ogni caso, per giustificare l’inserimento nell’undici ideale catalano del fuoriclasse ungherese Kubala, l’unico cui hanno dedicato una statua fuori dal Camp Nou, Kubala era un anarchico uomo d’ordine, degno figlio di quella scuola mitteleuropea che dominava il mondo nei primi anni ’50: punta mobile, ala destra, regista puro, mezzala. Oggi credo giocherebbe nel terzetto di centrocampo, la posizione dove meglio potrebbe far valere la propria superiorità tecnica (secondo Di Stefano, i piedi di Kubala erano ancora più deliziosi di quelli di tale Edson Arantes do Nascimento) e la sua notevole stazza. Iniesta dentro il fisico di Rooney, se vogliamo farci un’idea del tipo di giocatore; Kubala era anche un portentoso uomo gol e ha lasciato un’impronta a caratteri cubitali sul primo grande Barcellona, quello che sfidava un Real impossibile spesso da pari a pari, incamerando titoli anche in giro per l’Europa.

Regista: Xavier Hernández

Ho già dedicato un pezzo al leggendario centrocampista catalano; qui mi limito a prendere atto del suo ruolo cardinale nella storia del Barca, dove ha debuttato nell’era di Rivaldo e Luis Figo, guadagnandosi subito i galloni del titolare, per poi consacrarsi, a partire dal festoso ciclo di Rijkaard, come uno dei primi giocatori del mondo. Il suo record di presenze e una bacheca quasi senza eguali ne fotografano solo in parte la capacità di gestire la trama e l’ordito delle gare, di leggerne i tempi e di impossessarsene, di alzare l’asticella quando il clima della contesa e il valore dell’avversario lo richiedevano.

Mezzala sinistra: Andrés Iniesta

Anche qui, le spiegazioni rischiano di essere tautologiche: Iniesta, esattamente come il gemello e come Kubala, rappresenta talmente tanto nella storia del club catalano che nessuno può seriamente pensare di escluderlo dalla formazione che sto allestendo, nonostante esistano concorrenti di analogo valore tecnico/atletico (l’inesauribile Johan Neeskens, l’Architetto dai sette polmoni Luis Suárez Miramontes) e più in generale una platea di nomi di spessore (da Schuster a Luis Enrique). Nessuno però può scalzare Don Andrés, quantomeno non se parliamo di carriera in blaugrana: Iniesta, nel contesto del celebre trio delle meraviglie, era forse il meno imprescindibile ma anche colui che più di ogni altro poteva rovesciare il destino con un’intuizione, con una giocata di genio. A dispetto dell’apparente fragilità e di un fisico degno di un impiegato del catasto, il fisico di uno che, a prima vista, nella vita può fare tante cose meno la mezzala nel calcio contemporaneo, Iniesta ha saputo sfruttare al meglio le doti in cui era un’eccellenza mondiale e non solo tra i contemporanei (dribbling, visione di gioco, controllo di palla che definire un’opera d’arte non è blasfemo) e a mascherare i pochi difetti (scarsa propensione allo scontro fisico e anche al gol, in relazione al ruolo). Un genio asimmetrico e forse proprio per questo ancora più affascinante.

Attaccante destro: Lionel Messi

Anche qui, nessuna giustificazione: Messi è IL Barcellona, ne incarna l’essenza, il giocatore più grande e decisivo, il piccolo genio che volteggia ad altezze siderali, rendendo superflua ogni ulteriore esigenza argomentativa. Senza Messi, non avremmo visto una tra le macchine da calcio più efficaci, spettacolari e inimitabili non solo dell’era moderna. Sarebbe superfluo e defatigante evocarne le gesta, i titoli, le prestazioni memorabili: i numeri li lascio agli statistici, perché neppure i numeri possono descrivere davvero ciò che ha rappresentato Leo in maglia blaugrana, con buona pace di altri giocatori straordinari che, senza un concorrente del calibro di Leo, avrebbero legittimamente potuto aspirare alla posizione: mi corre comunque l’obbligo di menzionarli, si tratta del fragile genio di Michael Laudrup, di Luis Figo (l’unica vera ala destra in concorso, a voler essere onesti) e di Rivaldo.

Centravanti: Luis Alberto Suárez Díaz

Il centravanti è forse il ruolo che mi ha creato maggiori problemi, perché in questo caso parlare di abbondanza è quasi riduttivo. Ho dovuto escludere ob torto collo Ronaldo e Romario, naturalmente non perché non siano idonei a ricoprire la posizione, ma perché la loro militanza catalana è stata troppo breve.
Sándor Kocsis mi ha dato qualche grattacapo in più, anche per la sua allure di eroe dal tragico destino; credo però che il fuoriclasse ungherese abbia scritto la storia soprattutto negli anni vissuti in patria e ritengo quindi di poterlo emarginare. Lo stesso discorso vale per Gary Lineker, centravanti gentiluomo che ha lasciato ricordi indelebili anche sulle ramblas, ma la cui carriera si è articolata in maniera tale da escludere la centralità dell’esperienza spagnola. Altri giocatori, benché abbiano collezionato record di segnature, restano fuori a cuor leggero in ragione del loro scarso impatto internazionale: penso a César Rodriguez, a una figura dai contorni mitologici come quella di Josep Samitier, a un bomber d’antan come Josep Escolà. La rosa si è quindi ristretta a due nomi, quelli di Samuel Eto’o e di Luis Suárez, e i numeri mi hanno suggerito di scegliere l’uruguaiano, anche se mi rendo conto che si tratta davvero di una questione di gusti e di sfumature. Eto’o era la bocca di fuoco del Barça di Rijkaard e ha avuto il merito di sbloccare due finali di Champions più complicate del previsto, a Parigi nel 2006 e a Roma nel 2009. Credo però che il torneo disputato da Luisito nel 2014/2015 non abbia nulla da invidiare a quelli del camerunese. Il sudamericano ha poi collezionato reti e assist per diverse stagioni oscurando persino un compagno ingombrante come Messi nel corso della Liga 2015/2016. La sua cattiveria agonistica, l’estro, la rapidità di esecuzione e la capacità di alzare l’asticella quando la palla scottava lo rendono a mio avviso il centravanti più determinante della storia catalana.

Attaccante sinistro: Hristo Stoichkov

Il dualismo Johan Cruijff/Ronaldinho mi ha impegnato in un lungo dibattito interno finché non mi sono tirato una pacca sulla fronte pensando che, forse, l’attaccante sinistro più determinante della storia blaugrana è stato Stoichkov.
Anche qui, non posso prescindere da dedicare alcune considerazioni alle esclusioni più illustri: lasciare fuori dall’undici titolare Neymar non mi ha creato troppi problemi, perché se le sue qualità e il rendimento assicurato sulle ramblas sono fuori discussione, ci sono alcuni alti e bassi (specie nella prima stagione, quando approda in Europa da bambino prodigio pagato una cifra record) che mi impediscono di collocarlo nell’Olimpo del Barça. Il piccolo danese Allan Simonsen, per quanto valoroso e molto sottovalutato, di fronte agli altri concorrenti deve necessariamente defilarsi, e lo stesso destino attende un altro campione come Uccello di fuoco Czibor. Cruijff mi ha costretto a una scelta più dolorosa, ma a malincuore l’ho messo da parte in quanto, dopo un esordio folgorante che dà una sferzata all’intera storia del Barcellona, anche a livello iconografico e filosofico, l’olandese si ricicla come giocatore più a uso interno e il suo impatto sui palcoscenici internazionali è quantomeno discutibile. Michael Laudrup (che avrebbe potuto serenamente giocare nella posizione di entrambe le ali) è un altro giocatore cardine della storia blaugrana, il vero precursore del Cavaliere Pallido, ma rispetto ad altri fuoriclasse è stato privo di quella lucidità e di quella cattiveria che ti consentono di prendere per mano la squadra che naviga in mezzo alla burrasca.
Ronaldinho, specie nelle due stagioni in cui sembrava posseduto dalla Musa del pallone, avrebbe meritato i galloni del titolare, probabilmente tanto quanto Hristo se non addirittura di più. Ci sono però alcuni dettagli che mi fanno propendere per il bulgaro: Ronaldinho, a un certo punto, smette di allenarsi come dovrebbe e la sua parabola catalana si conclude in modo triste, con le figuracce della stagione 2007/2008, le lunghe pause, il ruolo marginale cui Rijkaard si trova costretto a relegarlo. Guardiola allestisce il suo capolavoro pretendendo la cessione di un Dinho che viene purtroppo percepito come un peso per la squadra, e un simile epilogo non più che ridimensionare, almeno in parte, lo splendore innegabile delle annate in cui il brasiliano osservava il resto del pianeta dell’alto in basso. Stoichkov, pur leggermente meno dotato del fuoriclasse carioca dal punto di vista tecnico, ha vissuto all’ombra della Sagrada Familia e del suo mentore Cruijff le stagioni migliori di una carriera gloriosa, dimostrandosi leader carismatico alla stregua di un Nedved o di un Matthäus, trascinando i catalani – meglio e più di Cruijff e più di Ronaldinho – in Europa e vincendo con pieno merito un pallone d’oro che in Bulgaria viene tuttora reputato un traguardo mitologico. Se il Barça si sblocca in Coppa dei Campioni, dopo decenni agonici, lo deve anche e soprattutto al suo fuoriclasse dell’est, che anche per tali ragioni merita a mio avviso la corona riservata al titolare.

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