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La top 11 del Barcellona: da Ter Stegen a Stoičkov

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Anni fa, abbiamo inaugurato la rubrica dedicata alle formazioni ideali con il Barcellona. Oggi, riteniamo giusto rinverdire e ampliare l’articolo dedicato ai blaugrana, uno dei club più amati e seguiti del mondo, nonché forse quello che, più di ogni altro, ha costruito un brand e una filosofia di notorietà planetaria, pur soccombendo, sul piano dei puri risultati, all’avversario di sempre, il Real Madrid.

Le esclusioni nel Dream Team dei Dream Team sono numerose e a volte quasi imperdonabili, ma speriamo di aver fatto un buon lavoro di restyling. D’altra parte, la difficile collocazione tattica di molti tra i fuoriclasse in campo mi obbliga a scelte a volte contestabili, ma comunque tutte sostenibili a mio parere.

Portiere: Marc-André Ter Stegen

Diciamo la verità: se il Barcellona ha potuto contare su vere e proprie eccellenze pressoché in ogni reparto, la posizione dell’estremo difensore, per molto tempo, ha fatto un po’ eccezione. Anni fa avevamo optato per Andoni Zubizarreta, lungo e carismatico, portiere simbolo del Dream Team e della nazionale per lungo tempo, ma oggi credo sia giunto il tempo di far accomodare il basco in panchina, perché l’estremo difensore blaugrana più forte a mio parere è Marc-André Ter Stegen. Dopo alcune stagioni di alti e bassi, il tedesco si è preso la prima pagina e l’ha fatto in grande stile, anche negli anni bui post-Messi e soprattutto, direi, durante la Liga 22/23, forse l’unico campionato della storia catalana in cui un portiere è stato se non il primo violino, un autorevole secondo. Abile nel gioco con i piedi, reattivo e bravissimo nella lettura delle complicate e frequenti situazioni in cui si trova uno contro uno, Marc è è un pezzo di storia blaugrana.
Al terzo posto, ritengo di ricordare Victor Valdés, portiere affidabile, longevo e continuo, incapace però di particolari acuti e di fatto sempre un elemento di complemento negli squadroni blaugrana.

Laterale destro: Dani Alves

Obiezione accolta: Alves non è mai stato un portento nella pura fase difensiva e pesano sulla sua coscienza alcuni errori di lettura e di sintassi calcistica collettiva davvero imperdonabili. Non rinnego le serate che ho terminato maledicendo la sua spregiudicatezza tattica, prima e principale causa di quelle voragini difensive che il Barça, in alcune occasioni, ha pagato a caro prezzo. Però neppure rinnego ciò che il brasiliano ha regalato al club catalano durante la sua lunga militanza in blaugrana: Alves ha inaugurato una nuova figura di laterale, che sarebbe forse più opportuno definire come regista, se non addirittura come numero dieci posizionato sulla fascia e incaricato di percorrerla in entrambe le direzioni per novanta minuti. Alves ha rappresentato un’arma tattica e tecnica fondamentale, un grimaldello in grado di scardinare i reparti difensivi più coriacei e di offrire sempre un’opzione aggiuntiva ai tre cervelli che dominavano il gioco nell’epoca di Guardiola. Anche alla Juventus hanno imparato ad apprezzarne le qualità: dopo i primi mesi imbronciati, complici un adattamento difficile al nostro calcio e un’età non più verdissima, Alves ha saputo cambiare marcia laddove la sua classe era chiamata a fare la differenza, ovvero in Champions League, torneo in cui ha collezionato prestazioni da campione e le giocate decisive di regola appannaggio (appunto) del numero dieci. In sintesi, non ho dubbi: il miglior laterale destro della storia catalana non può che essere il piccolo brasiliano di Juazeiro.

Dietro il brasiliano, scalpita la bandiera Gerardo Miranda, meno dotata sul piano tecnico e più votata alla fase difensiva, ma capace di essere un titolare inamovibile del Barcellona altalenante degli anni ’80, con il quale, in otto stagioni, Gerardo ha vinto tra le altre cose la Liga del 1985 e la Coppa delle Coppe del 1982. Il posto d Gerardo, sulla fascia e nel cuore dei tifosi catalani, lo prenderà lo stantuffo Alberto Ferrer, splendido cursore dell’epopea di Cruijff e titolare dei blaugrana per quasi un decennio di successi.

Difensore centrale: Carles Puyol

Tale Franco Baresi, che qualcosa in materia dovrebbe capirne, ha sintetizzato le qualità di Carles Puyol elogiando il coraggio con cui il difensore spagnolo metteva la testa in posti dove altri giocatori neppure avrebbero osato mettere un alluce. In una squadra di bravi ragazzi che facevano leva sulla pura qualità tecnica come trampolino per la gloria, un leader spigoloso (affiancato a un altro caratteriale come Alves) serviva come il pane. Carles ha speso una vita a difendere i colori blaugrana, dominando l’aria a dispetto di una statura da normolineo (alla stregua di Cannavaro), facendo a sportellate senza timore alcuno contro gente ben più corazzata, dimostrando un’eccezionale capacità di recupero in campo aperto, specie negli anni giovanili (la sua capacità di recupero era il segreto della diafana struttura difensiva catalana). Puyol ha debuttato nel vecchio millennio e ha comandato da capitano indomito la barca sia durante le lunghe epopee di gloria (gli anni di Rijkaard e Guardiola) che durante i frequenti scivoloni e le stagioni da dimenticare. Ha alzato al cielo due Champions League e grazie a un tempismo nel gioco aereo che vanta pochi eguali si è tolto la soddisfazione di segnare reti che pesavano quintali, raccogliendo scampoli di gloria anche nell’area di rigore avversaria (penso al tuffo olimpico con cui ha regalato il vantaggio ai suoi nel memorabile successo per 2-6 a Madrid). Mi sbilancio? Il miglior difensore della storia blaugrana e forse dell’intera storia del calcio spagnolo.

La sua riserva più accreditata è Miguel Bernardo Bianquetti, meglio noto come Migueli, che per quindici anni ha difeso la porta catalana e l’ha fatto come si conviene a uno stopper statuario, fisicamente fortissimo, grintoso e capace di farsi valere anche sul piano tecnico. Ministro della difesa nell’epoca del Cruijff giocatore, Migueli, titolare anche della nazionale, in maglia blaugrana ha giocato fino a fine anni ’80 (all’epoca del Cruijff tecnico), vincendo numerosi titoli nazionali e due Coppe delle Coppe. Il terzo centrale della storia del Barça a mio parere è La Bestia Miguel Ángel Nadal, poderoso centrale poco barcellonista, sulla carta, e che però sapeva abbinare allo strapotere fisico (che gli valse il soprannome di Bestia) notevoli doti tecniche, che maturano durante il regno di Johann e inducono l’asso olandese e sfruttare Nadal anche come centrocampista aggiunto, in una sorta di premonizione di ciò che Guardiola farà con Stones. Nadal veste la maglia blaugrana per quasi un decennio e vince di tutto, ivi compresa una Coppa dei Campioni.

Difensore centrale: Ronald Koeman

Rambo Koeman (soprannome che non aveva nulla di casuale o di iperbolico) era l’anima del Dream Team di Cruijff, un superbo centrale dotato di una castagna con pochi eguali, abilissimo nel lancio a lunga gittata e nella lettura del gioco, valido anche in fase di copertura, specie per la capacità di giocare in anticipo, a dispetto di una certa pesantezza e di un modo di correre a volte macchinoso. Poco importa: Koeman fiutava l’aria come i migliori segugi e faceva leva sul proprio intuito per proteggere la porta; dettaglio non secondario: Koeman segnava come un attaccante ed è celeberrima la punizione che ha regalato alla Catalogna la prima Coppa dei Campioni, nel 1992, esito ultimo e più alto dello spettacolare ciclo di Cruijff. Il suo ruolo chiave nella storia catalana mi induce a dargli la maglia da titolare.

Piqué è in ogni caso la più che degna riserva di Rambo: gli ultimi anni di carriera assomigliano a una lunga agonia, vero, ma chi scrive non dimentica il ruolo chiave di Gerard negli anni d’oro e anche il contributo da colonna della difesa nelle stagioni di Luis Enrique, le ultime che lo vedono figurare come giocatore di livello internazionale. Rafael Márquez è stato un centromediano metodista capace di fungere anche da libero sui generis e da centrale puro, e la sua cifra tecnica non è inferiore a quella di Piqué: elegante, tecnicamente impeccabile, validissimo nel gioco aereo, Rafa è un pezzo di storia blaugrana.

Laterale sinistro: Jordi Alba

Anche qui, accolgo le obiezioni: Alba è uno stantuffo dotato di tre polmoni, più che un grande laterale difensivo. Sfido però a trovare di meglio; confesso che l’attuale terzino catalano è stato in ballottaggio con Sergi Barjuán Esclusa, che lo ricordava sotto molti profili, al punto da rappresentarne una sorta di presagio. Il valore dei due calciatori è simile, ma avendo a seguito a lungo entrambi opto per il difensore che punì gli azzurri a Kiev nel 2012, giusto pochi giorni prima di trasferirsi a Barcellona. Chi ha seguito i blaugrana nel corso degli ultimi anni sa che lo schema palla lunga pennellata da Messi/ inserimento di Alba ha rappresentato lo snodo chiave della manovra del Barcellona, l’arma da sfoderare quando i fortini avversari si dimostravano invalicabili. Jordi Alba ha collezionato decine di assist e pure qualche segnatura importante, a conferma della sua statura di campione, regalandosi il lusso, in alcuni memorabili Clasicos, di cancellare dal campo un campione come Gareth Bale.

Gli altri due giocatori che meritano una citazione solo per l’appunto Sergi, che ha vestito la maglia del Barcellona in 382 occasioni dimostrandosi a lungo uno dei laterali più dotati in circolazione, e quello che forse è il più bravo di tutti nel ruolo a Barcellona, e che però veste per relativamente poco tempo la maglia blaugrana, ovvero Giovanni van Bronckhorst, terzino ma di fatto universale olandese che a Barcellona disputa quattro stagioni da incorniciare, vincendo la Liga e la Champions.

Mezzala destra: László Kubala

Una precisazione: le formazioni all time, per quanto debbano necessariamente possedere una logica, non sono esattamente votate all’equilibrio. L’obiettivo non è assemblare un collettivo che possa scendere in campo, non solo almeno, ma selezionare i migliori. Ecco perché a volte ho dovuto sacrificare l’equilibrio alla qualità. Non che servano troppe spiegazioni, in ogni caso, per giustificare l’inserimento nell’undici ideale catalano del fuoriclasse ungherese Kubala, l’unico cui hanno dedicato una statua fuori dal Camp Nou, Kubala era un anarchico uomo d’ordine, degno figlio di quella scuola mitteleuropea che dominava il mondo nei primi anni ’50: punta mobile, ala destra, regista puro, mezzala. Oggi credo giocherebbe nel terzetto di centrocampo, la posizione dove meglio potrebbe far valere la propria superiorità tecnica (secondo Di Stefano, i piedi di Kubala erano ancora più deliziosi di quelli di tale Edson Arantes do Nascimento) e la sua notevole stazza. Iniesta dentro il fisico di Rooney, se vogliamo farci un’idea del tipo di giocatore; Kubala era anche un portentoso uomo gol e ha lasciato un’impronta a caratteri cubitali sul primo grande Barcellona, quello che sfidava un Real impossibile spesso da pari a pari, incamerando titoli anche in giro per l’Europa. Se vogliamo schierare una formazione più realistica ed equilibrata, possiamo sostituire a Kubala (che però non può stare fuori dalla formazione titolare e deve traslocare in attacco) Johann II, al secolo Neeskens, che in Catalogna vive una seconda giovinezza lunga cinque stagioni, stagioni non sempre facili per un Barcellona che vive sulle montagne russe e che però si aggrappa alla gamba e alla vena inesauribili del fuoriclasse olandese, che soprattutto nelle prime tre stagioni si conferma l’universale ammirato ad Amsterdam e vince anche il premio assegnato da Don Balón al miglior straniero nella Liga, nel 1976. Ancora meglio di Neeskens fa in Catalogna un giocatore straordinario, forse il più sudamericano dei teutonici, Bernd Schuster. Mezzala di regia che Menotti avrebbe paragonato a un Iniesta meno agile e più possente, Schuster illumina il firmamento blaugrana per molte stagioni, segnando come una punta e vincendo nel 1985 una Liga trionfale, durante la quale esprime al meglio il suo calcio sofisticato, cerebrale, votato all’estetica e dotato anche però di estrema efficacia, un calcio che gli vale un terzo meritato posto nella graduatoria del pallone d’oro (Bernd era salito sul podio anche nel 1980 e nel 1981). Una piccola citazione la merita già anche il genietto Pedri, che a 22 anni ancora da compiere è alla quinta stagione da titolare e ha fatto sgranare gli occhi a tutti gli esteti del mondo, con il suo calcio metafisico, leggero eppure di eccezionale concretezza.

Regista: Xavier Hernández

Ho già dedicato un pezzo al leggendario centrocampista catalano Xavi; qui mi limito a prendere atto del suo ruolo cardinale nella storia del Barca, dove ha debuttato nell’era di Rivaldo e Luis Figo, guadagnandosi subito i galloni del titolare, per poi consacrarsi, a partire dal festoso ciclo di Rijkaard, come uno dei primi giocatori del mondo. Il suo record di presenze e una bacheca quasi senza eguali ne fotografano solo in parte la capacità di gestire la trama e l’ordito delle gare, di leggerne i tempi e di impossessarsene, di alzare l’asticella quando il clima della contesa e il valore dell’avversario lo richiedevano.

Ha giocato a lungo accanto a Xavi e rispetto al compagno di reparto era un numero cinque decisamente più classico, il cui gioco era tutto basato sull’intelligenza, la capacità di leggere i movimenti e il tempismo: sto parlando naturalmente di Sergi Busquets, uno dei giocatori meno amati e probabilmente meno comprensibili per il pubblico italiano, perché non era veloce, non era potente e nonostante la statura non eccelleva nel gioco aereo: il nostro pubblico faticava quindi a capire perché fosse un titolare inamovibile e fosse ritenuto così bravo. La verità è che Sergi, nonostante questi limiti, è stato la colonna e il cervello “interno” di alcune delle migliori squadre di sempre e l’ha fatto sempre in punta di piedi, prima e più spesso “scomparendo” nel sistema, e poi, soprattutto a fine carriera, dimostrandosi anche capace di essere il primo regista della squadra. Con 722 presenze e una bacheca che vale quella di molti club di alta levatura, Busquets è uno dei tasselli più importanti del puzzle catalano.
Il secondo posto in panchina lo scalda il predecessore e tecnico di Xavi Josep Guardiola, numero cinque più classico, poco veloce ma dotato di una dote cruciale nel panorama blaugrana, ovvero della capacità di giocare di prima (da qui il soprannome Pam, affibiato da Kiko) e di leggere con una velocità non comune i tempi di gioco e le fasi della partita. Per Pep, si contano 386 presenze, 11 reti e un numero sterminato di trofei, sulle Ramblas.

Mezzala sinistra: Andrés Iniesta

Anche qui, le spiegazioni rischiano di essere tautologiche: Iniesta, esattamente come il gemello e come Kubala, rappresenta talmente tanto nella storia del club catalano che nessuno può seriamente pensare di escluderlo dalla formazione che sto allestendo,. Nel contesto del celebre trio delle meraviglie, Don Andrés era forse il meno imprescindibile ma anche colui che più di ogni altro poteva rovesciare il destino con un’intuizione, con una giocata di genio. A dispetto dell’apparente fragilità e di un fisico degno di un impiegato del catasto, il fisico di uno che, a prima vista, nella vita può fare tante cose meno la mezzala nel calcio contemporaneo, Iniesta ha saputo sfruttare al meglio le doti in cui era un’eccellenza mondiale e non solo tra i contemporanei (dribbling, visione di gioco, controllo di palla che definire un’opera d’arte non è blasfemo) e a mascherare i pochi difetti (scarsa propensione allo scontro fisico e anche al gol, in relazione al ruolo). Un genio asimmetrico e forse proprio per questo ancora più affascinante.

Luis Suárez Miramontes è stato un giocatore della stessa cifra tecnica di Don Andrés, forse meno geniale in rifinitura e nel dribbling ma più efficace sotto porta e ancora più abile nel lancio lungo. L’Architetto finisce in panchina per ovvie esigenze di spazio e anche perché ha dato il meglio, forse, nella Milano nerazzurra, pur vincendo a Barcellona il suo unico pallone d’oro, ma un posto nella rosa gli spetta di diritto. Al terzo posto, un altro nome che potrebbe sembrare fuori posto, e che però in realtà, nel corso della sua brillante militanza catalana, ha spesso giocato come mezzala sinistra con licenza di attaccare l’area: sto parlando di Rivaldo, un numero dieci che partiva dalle zone centrali del campo e che segnava come un centravanti. Le sue stagioni a Barcellona sono ancora oggi guardate con ammirazione da tutti gli appassionati di calcio e gli sono valse, nel 1999, un meritatissimo pallone d’oro. Per lui, in Catalogna, si contano 235 presenze e 130 gol.

Attaccante destro: Lionel Messi

Anche qui, nessuna giustificazione: Messi è IL Barcellona, ne incarna l’essenza, il giocatore più grande e decisivo, il piccolo genio che volteggia ad altezze siderali, rendendo superflua ogni ulteriore esigenza argomentativa. Senza Messi, non avremmo visto una tra le macchine da calcio più efficaci, spettacolari e inimitabili non solo dell’era moderna. Sarebbe superfluo e defatigante evocarne le gesta, i titoli, le prestazioni memorabili: i numeri li lascio agli statistici, perché neppure i numeri possono descrivere davvero ciò che ha rappresentato Leo in maglia blaugrana, con buona pace di altri giocatori straordinari che necessariamente si iscrivono tra le riserve.

Il primo tra questi è Luís Figo, fuoriclasse con pochi paragoni nei suoi anni d’oro, fromboliere della fascia destra capace di sterzare in un fazzoletto e dotato di un cannone al posto del piede destro. Leggendario uomo assist e trascinatore, Figo ha vestito la maglia del Barça per cinque stagioni, vincendo due volte la Liga e la Coppa delle Coppe del 1997, e venendo insignito per ben tre volte della corona di giocatore dell’anno del campionato spagnolo.

Se riteniamo più giusto classificare Kubala come attaccante, lo dobbiamo collocare sulla fascia destra: il fuoriclasse ungherese ha coperto il ruolo di ala sui generis per diverso tempo e quindi può rivendicare un posto in rosa anche in questa posizione, anche più del piccolo e immarcabile Marc Overmars, felice protagonista di tre stagioni in Spagna.

Centravanti: Luis Alberto Suárez Díaz

Il centravanti è forse il ruolo che mi ha creato maggiori problemi, perché in questo caso parlare di abbondanza è quasi riduttivo. Ho dovuto escludere ob torto collo Ronaldo e Romario, naturalmente non perché non siano idonei a ricoprire la posizione, ma perché la loro militanza catalana è stata troppo breve.
Sándor Kocsis mi ha dato qualche grattacapo in più, anche per la sua allure di eroe dal tragico destino; credo però che il fuoriclasse ungherese abbia scritto la storia soprattutto negli anni vissuti in patria e ritengo quindi di poterlo emarginare. Lo stesso discorso vale per Gary Lineker, centravanti gentiluomo che ha lasciato ricordi indelebili anche sulle Ramblas, ma la cui carriera si è articolata in maniera tale da escludere la centralità dell’esperienza spagnola – peraltro, a Barcellona Lineker gioca spesso da ala destra, specie nell’ultima annata. I 122 gol in blaugrana di Patrick Kluivert l’avrebbero reso un serio candidato al podio, se non fosse che la concorrenza nel ruolo è davvero proibitiva.

Alla fine, ritengo che il posto da titolare se lo contendano Luis Suárez e Samuel Eto’o, e ho optato per il primo per la sua longevità e maggiore continuità sotto porta, in maglia blaugrana. Kompany ha definito Luisito come l’avversario più complicato da gestire perché era “anticonvenzionale” e imprevedibile in tutto ciò che faceva, e in maglia blaugrana ha segnato come il più prolifico dei bomber, risultando decisivo per quattro successi nella Liga e la Champions del 2015, vinta da assoluto protagonista. Con 198 reti, molte pesanti tonnellate, in 283 partite, l’uruguaiano è secondo me il centravanti più importante della storia catalana, seguito a ruota dal fuoriclasse camerunese Samuel Eto’o, che oltre a segnare come un bomber purissimo decide anche due finali di Champions ed è rimasto nel cuore dei suoi tifosi come uno degli attaccanti più rapidi e imprevedibili in assoluto nell’uno contro uno.

E Johan Cruijff? Il problema, nel caso della leggenda orange, è capire in quale posizione schierarlo, perché sulla carta Johann era un centravanti, ma di fatto era quasi un numero dieci e poi un regista classico. Le sue cinque stagioni blaugrana, tra le quali figura una stagione leggendaria che riporta sulle Ramblas il titolo, mi impongono in ogni caso di citarlo come riserva di lusso in attacco, ma di fatto come potenziale alternativa di lusso in ogni ruolo dalla metacampo in su.

Attaccante sinistro: Hristo Stoičkov (Ronaldinho)

Quella dell’attaccante sinistro è forse la scelta più complicata in assoluto, anche se di fatto i veri candidati al posto da titolare sono due, Ronaldinho e Stoičkov.

Ronaldinho, specie nelle due stagioni in cui sembrava posseduto dalla Musa del pallone, avrebbe meritato i galloni del titolare, probabilmente tanto quanto Hristo se non addirittura di più. Ci sono però alcuni dettagli che mi fanno propendere per il bulgaro: Ronaldinho, a un certo punto, smette di allenarsi come dovrebbe e la sua parabola catalana si conclude in modo triste, con le figuracce della stagione 2007/2008, le lunghe pause, il ruolo marginale cui Rijkaard si trova costretto a relegarlo. Guardiola allestisce il suo capolavoro pretendendo la cessione di un Dinho che viene purtroppo percepito come un peso per la squadra, e un simile epilogo non più che ridimensionare, almeno in piccolissima parte, lo splendore innegabile delle annate in cui il brasiliano osservava il resto del pianeta dell’alto in basso: le sue prime tre stagioni sulle Ramblas sono uno infatti degli apici estetici e tecnici della storia del calcio, Dinho in quel momento volteggiava lontanissimo dai comuni mortali e regalava colpi di genio a getto continuo, e di fatto quindi chiedo ai lettori di considerare Dinho un titolare a sua volta, anche se consegno la maglia numero undici a Hristo Stoičkov.

Il bulgaro, pur leggermente meno dotato del fuoriclasse carioca dal punto di vista tecnico, ha vissuto all’ombra della Sagrada Familia e del suo mentore Cruijff le stagioni migliori di una carriera gloriosa, dimostrandosi leader carismatico alla stregua di un Nedved o di un Matthäus, trascinando i catalani – meglio e più di Cruijff e più di Ronaldinho – in Europa e vincendo con pieno merito un pallone d’oro che in Bulgaria viene tuttora reputato un traguardo mitologico. Se il Barça si sblocca in Coppa dei Campioni, dopo decenni agonici, lo deve anche e soprattutto al suo fuoriclasse dell’est.

Altri due nomi sono imprescindibili nella ricchissima panchina, e sono quelli di Michael Laudrup e di Neymar.

Il danese, che avrei potuto schierare anche a centrocampo o da falso nove, trasforma la cifra tecnica del Barcellona di Cruijff e per diversi anni è uno dei giocatori non solo più belli ma anche più decisivi del mondo: imprendibile palla al piede, geniale nell’assist, capace di deliziare il pubblico regalandogli prelibatezze e colpi di genio, Michael chiude maluccio l’avventura catalana, dopo essersi scornato con Cruijff, e giusto per questo finisce in panchina.

Neymar ha colpi non inferiori a quelli dei tre giocatori sopracitati e numeri anche superiori: in termini di gol e assist supera tutti nel ruolo, in blaugrana, e, se la prima stagione lo vede ancora a tratti balbettante, dalla seconda all’ultima il magrissimo funambolo brasiliano è il miglior compagno di reparto che Messi abbia avuto, un genio della rifinitura e un notevole uomo gol, capace di fare la differenza anche contro le big europee. Diciamo che proprio l’essere sempre stato “secondo violino” di Messi, salvo alcuni mesi da prim’attore con Messi in infermeria, mi induce a lasciarlo in panchina, ma il suo rendimento eccezionale mi obbliga a inserirlo in rosa. Come quinto nome, e giusto per completezza, cito anche il piccolo artista danese Alan Simmonsen, che gioca a Barcellona per tre anni e lo fa in maniera superba, decidendo anche una finale di Coppa delle Coppe.

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