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Una serata dedicata a Giacinto Facchetti

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La presentazione del libro “Se no che gente saremmo” scritta da Gianfelice Facchetti in ricordo del padre Giacinto e pubblicata su “il Biellese” del 19 novembre. 

Non una biografia sul padre Giacinto. Ma un racconto di vita intenso, ricco di curiosità e ricordi, non unicamente legati al calcio. “Se no che gente saremmo”, il libro scritto da Gianfelice Facchetti in ricordo del papà e che è stato presentato al pubblico biellese venerdì sera al polivalente di Vergnasco, è un lungo cammino alla scoperta di ciò che Facchetti è stato, non solamente sul terreno di gioco. Con pochi riferimenti a Luciano Moggi e a Calciopoli («questo libro è scritto per tutti coloro che hanno voluto bene a mio padre») e tanti aneddoti, legati anche al Facchetti uomo, padre severo e persona ricca di valori, molto legata alla famiglia e molto distante dai calciatori-divi di oggi.
La serata, confezionata da Comune di Cerrione (presenti il sindaco Anna Maria Zerbola e il vice sindaco Giuseppe Tarricone) e Associazione Piccolo Fiore (con il presidente Massimo Ramella) ha visto anche la presenza di Gianluca Bernardini del Coni, di Davide Gori della Figc, di diversi sindaci e presidenti di società di calcio locali (da Gioacchino Scotti del Ceversama ad Andrea Lampo dell’Andorno). In tutto 150 partecipanti, tra cui Charlie Cremonte, che al termine dell’incontro ha presentato un video-documento sul mondo degli Special Olympics. Ma l’attezione era incentrata soprattutto sul libro di Gianfelice e su Giacinto Facchetti.
«Avevo 4 anni quando papà ha smesso di giocare» dice Gianfelice. «Sapevamo poco del calciatore, perché lui ha sempre cercato di tenere me, mia mamma, mio fratello e le mie due sorelle lontano dal suo lavoro. Con noi era solo un padre. Tanto è vero che io ho visto per la prima volta Italia-Germania 4-3 del Mondiale ‘70 nel 2006, insieme a lui naturalmente». Come insieme Giacinto e Gianfelice hanno poi rivisto la sconfitta in finale, per 4-1 contro il Brasile di Pelè: «Al gol del 2-1 di Gerson» prosegue Gianfelice «papà spense all’improvviso il televisore, non volle più guardare. Fu una reazione sorprendente, lui stava ancora vivendo quella partita in diretta. Per me, Brasile-Italia del ‘70 rimane ancora oggi una partita aperta…».
L’idea del Facchetti calciatore iniziò a farsi largo nella vita di Gianfelice alla scoperta della malattia: «Era il 12 maggio 2005, papà mi telefonò per dirmi che era stato trattenuto in ospedale perché certi valori nell’esame del sangue erano sballati. Ero sorpreso: fino a quel momento avevo sempre visto mio padre come una persona invincibile, inattaccabile. Un po’ come tutti i figli guardano ai genitori. Da lì a pochi giorni la situazione fu più chiara: papà aveva una forma molto aggressiva di cancro». Ma non per questo, come si legge anche nel libro, Giacinto smise di lottare, di vedere gli amici, di sorridere.
Facchetti se n’è andato nel settembre 2006. «All’improvviso» dice Gianfelice «io, le mie sorelle e mio fratello siamo rimasti orfani. Poco importa che avessimo 30 anni. Sempre orfani eravamo. Senza più una parte consistente delle nostre radici. Siamo cresciuti di colpo, abbiamo dovuto affrontare la vita in modo diverso». In quel momento è scattata in Gianfelice l’idea di scrivere: «Da allora tutto un mondo fino a quel momento sommerso e che non conoscevamo si è presentato alla nostra porta. Ex compagni di squadra, tecnici, giornalisti, tifosi». Un mondo che ha finito con il “rapire” anche il figlio e portarlo a scoprire e narrare diversi episodi del Facchetti calciatore, dall’incontro con il mentore Helenio Herrera al primo gol in serie A al Napoli; dal punto più alto della carriera, il terzo gol di Inter-Liverpool 3-0, semifinale di ritorno della Coppa Campioni ‘65, alla delusione maggiore, l’eliminazione dell’Italia ai Mondiali inglesi del ‘66: in quell’occasione Facchetti fu criticato perché in Urss-Italia 1-0 non riuscì a contenere la rapidità dell’ala destra sovietica Igor Cislenko, autore della rete decisiva http://rovesciatavolante.blogspot.it/2013/07/girone-d-urss-italia-1-0.html . Ma “Giacinto Magno”, come era chiamato, si prese la sua rivincita un paio di mesi dopo, in un’amichevole Italia-Urss, quando cancellò dal campo il rivale Cislenko. Perché, parafrasando il libro di Gianfelice, il calcio, come la vita, dà sempre diritto a una seconda occasione.

Giacinto Facchetti
(www.wikipedia.it)

Giacinto Facchetti nel calcio italiano
FU UN PRECURSORE: DA TERZINO E DA LIBERO
I numeri da soli non bastano per spiegare cosa sia stato per il calcio italiano Giacinto Facchetti. Nato a Treviglio (Bg) nel ‘42, iniziò come attaccante sfruttando un’altezza fuori dal comune per l’epoca (188 cm). Fu Helenio Herrera a intuirne le potenzialità come difensore di fascia. Vinto l’iniziale scetticismo, Facchetti divenne un superbo terzino sinistro, raccogliendo l’eredità del torinista Virgilio Maroso, morto a soli 24 anni a Superga. Corretto (una sola espulsione in carriera), pulito negli interventi, un treno in fase di spinta e capace pure di segnare: 75 reti in carriera, di cui 10 solo nel campionato 1965-66. In Italia, il Paese del Catenaccio, non si era mai visto nulla di simile (all’estero c’erano già stati terzini sinistri “a tutto campo” dall’inglese Eddie Hapgood dell’Arsenal di Chapman al meraviglioso Nilton Santos, due volte campione del mondo con il Brasile). Facchetti fu una colonna nei trionfi della Grande Inter e divenne capitano dell’Italia, conquistando oro europeo e argento mondiale. Capostipite dei grandi terzini sinistri italiani, da Cabrini a Paolo Maldini fino a Zambrotta, nel finale della carriera agì anche da libero. Anche in questo fu un precursore, come dimostra il caso da lì a pochi anni dell’olandese Ruud Krol, magnifico esterno sinistro dell’Olanda 74 poi diventato libero. E Gianfelice, nel suo libro, scrive che anche il sommo Beckenbauer, l’unico difensore capace di vincere 2 volte il Pallone d’Oro, ammise di ispirarsi al gioco di Giacinto.

Niccolò Mello

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