Cerca
Close this search box.

Da fuoriclasse a divinità: gli eccessi del calcio contemporaneo

Condividi articolo:

Immagine di copertina: Cristiano Ronaldo con la maglia del Portogallo [Getty Images]

Viviamo in un’epoca di scarsi valori e poche certezze. A livello sociale, economico e politico. E questo già da prima dell’avvento del COVID-19. La pandemia non ha fatto altro che accelerare un processo in atto da tempo. Anzi: il virus è stato forse una delle conseguenze di una situazione sempre più invivibile e ingestibile a livello planetario, si legga alla voce “cambiamenti climatici”. In un periodo così critico, che non regala molte speranze per il futuro, appigliarsi ai campioni dello sport rappresenta una facile soluzione, un’immediata ancora di salvataggio.

Elevare questi campioni al rango di miti, di fenomeni senza macchia, è forse un processo automatico. Per certi versi, persino inconsapevole. Capita in tutte le discipline? Può darsi. Ma non sono in grado di giudicare così analiticamente e approfonditamente ciò che avviene fuori dal calcio. Mi limito a guardare il calcio.

E a constatare che le imprese, le giocate, le azioni, i numeri dei più bravi calciatori contemporanei vengano celebrati da media, TV e giornali in un modo esorbitante. Dai campionati nazionali alle competizioni internazionali per club, fino a quelle per nazionali, è tutto un ribollire di entusiasmi, una roboante ricerca dell’eccesso.

Un triangolo sontuoso tra Laudrup e Platini nella finale Intercontinentale 1985. Ascoltate il tono sobrio del telecronista… Oggi per molto meno in tv si grida sovente al “miracolo” [ringraziamo per la segnalazione il lettore Mirko Ranieri]

Non appena un calciatore odierno si inventa una giocata fuori dall’ordinario, si grida al fenomeno. Non appena realizza un gol un po’ meno banale del normale diventa subito “una giocata mai vista”. Il calcio è spettacolarizzato e le gesta dei protagonisti vengono amplificate continuamente, che si tratti di un’azione corale, di un movimento senza palla o di un gol.

Lo stesso vale per i numeri. È notizia di pochi giorni fa che Cristiano Ronaldo, l’asso portoghese attualmente in forza alla Juventus, ha realizzato una doppietta all’Ungheria (dopo una prestazione per altro decisamente deludente) diventando con 11 reti il miglior marcatore del Campionato Europeo.

La stampa e i media hanno enfatizzato il raggiungimento di un simile traguardo esaltando il campione lusitano come si trattasse di un’impresa unica.
La maggioranza dei tifosi e degli appassionati vengono indottrinati da questi peana celebrativi a tal punto da crederci.

Come dicevamo prima, la società e il mondo di oggi hanno bisogno di creare miti per consentire alla gente comune di sognare, visto il periodo di “vacche magre” che viviamo da un bel po’ di tempo.

Peccato che non venga aggiunto un particolare che a mio avviso non è secondario, ma fondamentale.
Cristiano Ronaldo ha raggiunto quota 11 gol, superando il precedente primato del francese Michel Platini, in 22 partite e in cinque Europei. Media di 0,5 reti. Un gol ogni due incontri.
Platini aveva segnato le sue 9 reti in 5 partite. Media di quasi 2 gol a gara.
Messa così, che sapore ha?
Facciamo giocare a Platini 22 partite degli Europei e vediamo quanti gol segnerà…

Ferenc Puskás ha raggiunto quota 84 reti in 85 partite. CR7 lo ha superato, ma in 152 presenze…
[Mandatory Credit: Allsport Hulton Deutsch/ALLSPORT]

La mia intenzione non è sminuire il valore del campione portoghese, che è uno dei più straordinari giocatori della storia. E sono consapevole che la sua costanza sia da sottolineare perché nessuno finora era stato capace di segnare in 5 Europei diversi nell’arco di 17 anni. Ma se si parla di gol, è un’impresa fino a un certo punto. E occorre non prenderli per oro colato senza approfondire. È necessario a mio avviso portare a galla tutta la verità e non solo una parte.

Il principio è lo stesso quando si celebra Cristiano Ronaldo per il numero dei gol.
In nazionale, ha raggiunto quota 106 reti in 176 presenze. Quando ha superato gli 84 gol dell’ungherese Ferenc Puskás, il primato europeo, è stato celebrato ovunque con fiumi di inchiostro e grida di osanna. Ma da quanti avete sentito dire che CR7 per arrivare a 84 reti ha avuto bisogno di 151 presenze, mentre Puskás per giungere alla stessa cifra di 84 ha impiegato appena 85 incontri?
Facciamo giocare a Puskás 151 partite in nazionale e vedremo quanti gol segnerà…

Lo stesso vale per i gol totali.
CR7 oggi è a quota 798 in carriera. Le presenze sono 1106. Media 0,72. Lasciando stare il primatista Bican, che giocava in un calcio pre-televisivo e di difficile comprensione, se si guarda solo ai fuoriclasse più moderni, CR7 è il… peggiore. Si veda la tabella sotto.

La classifica dei gol dei fenomeni televisivi: ciò che conta davvero è la media-gol

MEDIA-GOLGOLPRESENZE
1 Ferenc Puskás0,99746754
2 Eusébio0,98626638
3 Gerd Müller
3 Pelé
0,93732
761
792
821
4 Lionel Messi0,79772978
5 Romário0,78746958
6 Cristiano Ronaldo0,727981106

Posto che io sono un fan del principio caro a Gianluca Vialli «i gol si pesano e non si contano», se vogliamo contarli non possiamo prescindere dal numero di partite giocate. Perché ciò che ha senso nel conteggio delle reti è stabilire la media realizzativa.

Cristiano Ronaldo è solo un esempio di come i numeri vengano utilizzati oggi a uso e consumo di ciò che serve per esaltare il fuoriclasse odierno, spesso a discapito di quello del passato, che non ha avuto la stessa cassa di risonanza e la stessa attenzione mediatica.

Lo stesso discorso si può estendere ad altri giocatori e ruoli. Si prenda il caso di Sergio Ramos, il difensore spagnolo che ha appena annunciato l’addio al Real Madrid: con 106 reti in 752 partite ha tenuto senz’altro una media realizzativa notevole per un difensore, ma il fatto che molti ne parlino come se per un difensore segnare così tanto sia una rarità assoluta è qualcosa che non corrisponde assolutamente al vero. Si pensi all’olandese Ronald Koeman (253 reti in 763 partite), all’argentino Daniel Passarella (175 in 521), al francese Laurent Blanc (153 in 699), a un altro spagnolo come Fernando Hierro (135 in 722). E di esempi ce ne sarebbero ancora diversi.

Il palmares non è il parametro più importante

Ma una sovente errata lettura dei numeri non è la sola “stortura” del calcio contemporaneo.
Il mondo di oggi che sembra esaltare la ricerca del risultato a ogni costo ha trasformato il palmares nell’unica cosa che conta. Se così fosse, basterebbe sfogliare un almanacco o un albo d’oro e non ci sarebbe la necessità di guardare le partite.

Vincere o perdere ha la sua importanza, certo. Ma non può essere il criterio sommo con cui si giudica un calciatore. Vincere o perdere dipende da tanti fattori. A calcio si gioca in 11 e un successo o una sconfitta sono sempre figli della squadra.

Il valore del giocatore e le prestazioni del giocatore devono essere secondo me i parametri più importanti. Detta in estrema sintesi: per valutare l’impatto di un calciatore in una partita o in una competizione, occorre guardare prima di tutto a come gioca. Personalmente, preferisco quello che gioca tutte le partite da 7 e poi perde la finale piuttosto che quello che gioca sempre da 5 o 6 e poi in finale vince poiché viene trascinato dalla squadra. (Chiaro, l’ideale è giocare sempre al top e poi portarsi a casa anche il trofeo, magari dopo essere stato decisivo).

Che nella storia si venga ricordati non solo per gli albi d’oro, ma anche per le prestazioni, per il gioco, per la traccia lasciata – indipendentemente dal fatto che si vinca o perda – è testimoniato da non pochi esempi. A livello di squadre, come dimenticare l’Ungheria del 1954 o l’Olanda del 1974, pure sconfitte nell’atto conclusivo del rispettivo Mondiale.

A livello di singoli, in epoca recente, celebri sono i casi del Baggio del Mondiale ’94 e dello Zidane del Mondiale 2006. Ancora oggi, nel mondo, se si pensa a Usa ’94 e a Germania 2006, si pensa a questi due straordinari giocatori, che pure hanno perduto malamente la finale, sbagliando un rigore in un caso e venendo espulsi per un’assurda testata nell’altro.

Vincere conta? Sì, ma non è tutto. E non deve essere il parametro più importante in uno sport di squadra.

Il prestigio di una competizione cambia

Non bisogna inoltre dimenticare, a proposito dei criteri usati per giudicare un calciatore, che l’importanza delle competizioni varia a seconda dei decenni. Ciò che è prestigioso oggi lo era meno un tempo. E viceversa. Invece, nei giudizi di chi segue il calcio contemporaneo, noto a volte la brutta abitudine di voler rapportare tutto seguendo i parametri odierni.

Forse davvero l’unica competizione che è rimasta la Competizione con la C maiuscola, che ogni calciatore sogna di giocare e vincere, è il Campionato del mondo.
Tutto il resto sembra rispondere alla massima ovidiana del tutto muta.

Oggi, a livello di club, conta solo la Champions League. Un tempo non era così. Un tempo la distanza di valori tra una coppa e un’altra non erano assolutamente così marcati. La Coppa dei Campioni vedeva al via solo la squadra vincitrice dei campionati nazionali. Era più prestigiosa, ma probabilmente più semplice da vincere (non sempre, ma in molte edizioni sì) di una Coppa UEFA che vedeva qualificarsi la seconda, la terza e la quarta dei vari campionati.

Le stesse manifestazioni capaci di durare nel tempo non sempre sono state percepite con la medesima enfasi.
Prendiamo la Coppa América. Nata come Campionato Sudamericano, negli anni ’20, ’30 o ’40 (quando a causa della guerra in Europa era la sola competizione internazionale per nazionali) rivestiva nel subcontinente una certa importanza.
Poi è iniziato un lungo periodo di stallo e minor interesse e ha ripreso quota di fatto negli anni ’80 – giocata da assi come Francescoli, Maradona, Romário – e negli anni ’90: nel 1999 addirittura fu uno dei motivi che spinsero i giurati del Pallone d’Oro ad assegnare il premio al brasiliano Rivaldo.
Dopo aver di nuovo conosciuto una fase di ridimensionamento, è tornata in auge nell’ultimo decennio, complice l’interessamento della tv, la crescita degli sponsor e la presenza di campioni globali come Messi e Neymar che cercano disperatamente di conquistarla da anni.

Ci sono casi ancora più estremi di come cambino i parametri e riguardano le amichevoli.
Oggi ritenute di fatto inutili, tanto che si è arrivati a concepire un nuovo torneo surrogato, la Nations League, che almeno per il momento incontra pochi entusiasmi.
Un tempo invece le amichevoli erano ricoperte da un prestigio unico. Alle volte superiore alle competizioni ufficiali.

Fuori dal nostro Paese, il vero “match del secolo” è considerato un’amichevole.
Quella tra Inghilterra e Ungheria 3-6 del 25 novembre 1953, che vide i maestri magiari umiliare la spocchia inglese dopo 90 anni di imbattibilità interna, con un computo totale di 35 tiri a 5. Una partita-spartiacque per il calcio per come lo conosciamo oggi.

Giampiero Boniperti considerava la sfida Inghilterra-Resto del mondo 4-4 del 1954 – in cui fu invitato come unico azzurro e realizzò una doppietta d’autore – come il momento più alto della sua carriera. Nonostante 5 scudetti in maglia Juventus e nonostante la miriade di reti e assist disseminati nelle partite del campionato italiano.

ll russo Jašin vinse il Pallone d’oro 1963 grazie a… un’amichevole internazionale

Un altro Inghilterra-Resto del mondo 2-1 del 1963 fu ritenuto il match decisivo per l’assegnazione del Pallone d’oro al portiere russo Lev Jašin.

E non dimentichiamo il prestigio e il fascino delle tournée europee effettuate dalle formazioni sudamericane, su tutte quelle del Santos di Pelé. Ai tempi, senza internet e le tv satellitari, era il solo modo per vedere dal vivo i campioni d’oltreoceano: l’attenzione e l’interesse nei confronti di quei match erano spasmodici.

Un’importanza, quella delle amichevoli, rimasta bene o male tale anche nell’epoca di Maradona, se si pensa che l’incontro tra Inghilterra e Argentina a Wembley, nel 1980, è tutt’oggi ritenuta una delle prestazioni più entusiasmanti nella carriera di Dieguito, in una delle prime volte che il pubblico europeo lo ammirava dal vivo.

Forse l’ultima amichevole che seppe catturare interesse fu il Torneo di Francia ’97, antipasto del Mondiale dell’anno successivo, con Italia, Brasile e i padroni di casa della Francia che regalarono spettacoli pirotecnici in serie.

È esistito un tempo, in sostanza, in cui un’amichevole internazionale ricopriva più fascino e prestigio di una finale di coppa. Quanti tra i ragazzi di oggi, che hanno iniziato a seguire il calcio nel 21° secolo, ne erano realmente consapevoli?

Seguici

Altre storie di Goals

Euro 1976: semifinale Cecoslovacchia-Olanda

Né Olanda né Germania Ovest: le due favorite dell’Europeo 1976 devono arrendersi alla sorpresa Cecoslovacchia. La nazionale dell’Est mette in fila prima gli olandesi in

Questo sito utilizza cookies per migliorare la tua navigazione, se procedi nella navigazione ne accetti l'utilizzo.